Finalmente Giorgia Meloni viene ammessa al soglio di Trump. Non si tratta della scontata visita di cortesia che il Presidente USA concede – Sua grazia – ai governanti dei Paesi amici ad inizio mandato. E neppure di un “bilaterale” di routine.

In questo particolare frangente – che, forse, i nostri posteri chiameranno “storico “ – l’incontro alla Casa Bianca della Presidente del Consiglio dei Ministri di un Paese tradizionalmente alleato degli Stati Uniti, come il nostro, acquista un valore speciale e più intrigante, proprio in ragione della messa in mora, da parte di Donald Trump, delle alleanze geo-politiche e degli equilibri commerciali fin qui noti.

Giorgia Meloni giunge a Washington come Capo del Governo italiano e non in quanto leader dei conservatori europei, a loro volta incardinati in quella sorta di “internazionale” delle destre sovraniste, cui Meloni non ha fatto mancare il suo concorso, sia pure da remoto, un paio di mesi fa, o poco meno, in occasione dell’appuntamento che si diedero a New York, un po’ da ogni angolo del mondo.

Non c’è motivo di temere che, di questo, Giorgia Meloni non sia perfettamente consapevole e convinta. Il che vuol dire che si appresta a rappresentare, di fronte al Presidente della maggior potenza, l’Italia come tale e non soltanto il suo Governo “pro-tempore ” e, dunque, l’intero portato storico di un Paese fondatore dell’Europa e convintamente membro di quell’Alleanza Atlantica che oggi viene messa in discussione dal suo Paese-guida e della quale, pertanto, a maggior ragione, va ripensato l’intero impianto.

Che cosa, dunque, è importante e legittimo attenderci dall’ appuntamento di giovedì?

D’accordo i Dazi. Rappresentano l’argomento-principe da affrontare. Eppure – al di là di ogni possibile, più o meno amichevole, perorazione – avranno il corso che Trump vorrà imprimere, sua sponte…

Del resto, per molti aspetti, al di là del regime tariffario che Trump vuole imporre a vantaggio del suo Paese, i dazi sono il “cavallo di Troia” di una più vasta azione strategica, diretta a contenere la pervasività dell’rconomia cinese ed il conseguente peso politico dell’Impero Celeste sul piano delle relazioni internazionali. A costo di assecondare ed imitare l’orientamento illiberale ed autocratico – nel caso di Pechino addirittura dittatoriale – su cui la Cina fonda la ragioni del suo prodigioso sviluppo.

Si parli, dunque, di dazi, ma, per noi, è importante soprattutto la “metalettura” dell’argomento, cio che sta scritto tra le righe, sia pure non detto, ma di palmare evidenza. È opportuno, cioè , che l’inquilino della Casa Bianca, non appena Giorgia Meloni, dopo l’ incontro previsto nei prossimi giorni, varchi, in uscita, la soglia dello Studio Ovale, abbia compreso, senza ombra di dubbio e senza farsi illusioni, dove sta l’Italia.

In Europa. Del tutto, indisponibile a fungere da “ventre molle” dell’Unione o da grimaldello per forzarne le porte ed, in qualche modo, favorire o almeno non ostacolare il lavoro di disgregazione del vecchio continente che induce Trump ad ignorarne le istituzioni comuni, a favore di un dialogo con i suoi singoli Paesi.

L’Italia sta in Europa. Non altrove. Non in quell’aggregato pudicamente chiamato dei “conservatori”, in cui si raccoglie ben altro: sovranisti, populisti , nazionalisti di varia fattura. Accomunati da una sostanziale avversione nei confronti dei valori e dei riti di ordinamenti democratici che non sono nelle loro corde. Sensibili, piuttosto, ad un principio d’autorità, che secondo varie declinazioni, connota tutti i regimi illiberali, fino a forme autarchiche o espressamente dittatoriali.

Non si tratta di un occasionale bisticcio tra forme istituzionali comunque degne di considerazione, ma piuttosto di una linea di demarcazione netta, che tocca oggi, alle nostre generazioni, dirimere, secondo una proiezione temporale che impegnerà decenni e decenni e forse più del tempo concesso a chi verrà dopo di noi.

Decidiamo adesso i presupposti di cui vivranno le prossime generazioni e questo segnala quanto sia straordinariamente scivoloso, ma, ad un tempo, affascinante la stagione storica affidata alla nostra responsabilità.

Se le democrazie non si rivelassero capaci di “governare la potenza” – come, fin dagli anni ‘20, osserva Romano Guardini – e di “domare la complessità”, finirebbero per essere irrimediabilmente accantonate, consegnate ad una nobilissima memoria storica destinata ad impallidire via via, rimembranza di un tempo che fu.

Probabilmente, per quanto parliamo spesso e volentieri di sfide e svolte epocali della nostra tarda modernità, stentiamo ancora a comprendere che addirittura stiamo per inoltrarci in una di quelle periodizzazioni temporali di tale portata da meritare la definizione di “evo”.

Dopo quello dell’antichità classica, dopo i secoli di un medioevo tutt’altro che oscuro, dopo il Rinascimento e l’evo moderno, entriamo in una fase storica che sperimentiamo a tentoni ed ancora, comprensibilmente, del resto, non sappiamo come denominare. Spetta a chi vive le turbolenze dei nostri giorni difendere la democrazia e creare le forme che la possano garantire anche per i tempi che verranno.

Domenico Galbiati

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