Sull’Avvenire dello scorso 30 aprile è stata pubblicata un’intervista a Luigina Mortari, la firma è di Alessandro Zarcuri, che serve a riflettere sui limiti della tecnica nel risolvere tutti i problemi che si presentano dinanzi all’umanità. La ” complessità” è tale da richiedere una riflessione su di una impostazione esclusivamente “tecnocratica” con cui si affronta la sostanza della vita e delle vicende umane che finisce con il trascurare l’aspetto del’educazione e della formazione collettive.
Per la filosofa Luigina Mortari «è tempo di rompere il legame economico scientista che ci governa: la realtà è
complessa e le tecniche da sole non la interpretano» L’immagine viene da Plutarco: «Se vogliamo che la nostra anima sappia affrontare le intemperie – cita Luigina Mortari – non possiamo iniziare a prepararla quando siamo già in mezzo al fiume. È nella normalità che ci si organizza per l’emergenza. Ed è nell’educazione che si pongono le basi del lavoro di cura, rivolto a sé stessi e agli altri». Sono i temi che la studiosa affronta da tempo con estrema autorevolezza, attraverso l’attività di insegnamento presso l’Università di Verona (è titolare della cattedra di Epistemologia della ricerca qualitativa presso la Scuola di medicina e chirurgia e di quella di Fenomenologia della cura presso il dipartimento di Scienze umane), sia attraverso saggi come quelli pubblicati da Cortina e dedicati alla Filosofia della cura (2015), alla Sapienza del cuore (2017), all’Aver cura di sé (2019).
«Fin dall’antichità – sottolinea – la filosofia si è sempre occupata della dimensione interiore dell’essere umano, proponendosi come disciplina spirituale non meno che teoretica».
E poi che cosa è successo?
La rivoluzione scientifica ha imposto un modello fondato sull’evidenza empirica e sulla misurabilità dei fenomeni, al quale la filosofia ha finito per adeguarsi. Accettando di essere considerata come una sorta di abbellimento del quale, in fin dei conti, si può anche fare a meno, oppure riservandosi il ruolo di sistemazione concettuale nei confronti
dei processi messi in atto dalla scienza stessa. Ma se il quadro di riferimento è questo, non c’è più spazio per una cultura dell’anima. La filosofia della cura , inoltre, non ha nulla di scientifico nel senso in cui si intende oggi il termine. Qui non è il criterio quantitativo a entrare in gioco, ma l’esperienza, la conoscenza di sé che diventa sollecitudine verso l’altro.
È quello di cui avremmo bisogno in questo momento?
Mentre porta allo scoperto la fragilità e la vulnerabilità caratteristiche della condizione umana, il coronavirus ci costringe ad ammettere l’insostenibilità della nostra vita quotidiana così come ci eravamo abituati a strutturarla. Abbiamo accettato l’inevitabilità di un’impostazione scientifico–tecnocratica e adesso ci accorgiamo di aver
costruito un mondo fuori dalla realtà, inconciliabile con l’ordine normale delle cose.
Ma una pandemia non è la normalità…
No, ma per affrontare un evento di questa portata è necessario che la normalità abbia una tenuta migliore rispetto a quella di cui disponevamo finora. In queste settimane le nostre società si sono trovate a guardare, finalmente, in una direzione altrimenti dimenticata. Mi riferisco ai lavori essenziali, che per troppo tempo sono stati dati per scontati o, peggio ancora, dimenticati. La sanità, l’educazione, le attività che soddisfano i bisogni primari sono state progressivamente marginalizzate, scalzate dal riconoscimento economico e sociale che invece veniva assegnato a professioni tutt’altro che essenziali. Ora, davanti a un’epidemia imprevista, ci rendiamo conto che mancano non
solo gli strumenti indispensabili, ma anche gli operatori adeguatamente formati. La disparità numerica tra il personale delle Rsa e gli anziani ricoverati è un dato ben noto da prima dell’emergenza. Il coronavirus non ha fatto altro che esasperare una situazione già di per sé critica.
Si è pensato troppo al risultato economico?
Sicuramente, e purtroppo si continua a farlo, senza comprendere che questo procedere per opposizioni non porta a nulla: è un atteggiamento schizofrenico, che si ostina a tenere separati elementi che sono naturalmente e reciprocamente connessi. Negli ultimi giorni è stata sollevata spesso la contrapposizione tra emergenza sanitaria ed
emergenza economica, come se si trattasse di un’alternativa che non lascia scampo. Mettere in salvo vite, si sostiene, non può andare a discapito della dignità della vita. Ma la prospettiva cambierebbe in modo radicale se scegliessimo di mettere al centro dei processi decisionali un altro concetto, quello della buona qualità della vita. Sarebbe un modo per armonizzare tra loro fattori che, nell’esperienza delle persone, sono già compresenti e inscindibili.
Per esempio?
Chi si prende cura della figlia autistica di un’infermiera impegnata notte e giorno in un reparto Covid–19? Le scuole sono chiuse, i parenti non possono essere coinvolti, altre reti di sostegno non sono state predisposte. Non è un caso eccezionale, ma una delle tante vicende concrete di cui sono venuta a conoscenza di recente. Questo è il vero
allarme che viene dall’emergenza: non possiamo più illuderci di governare la realtà privilegiando un solo aspetto su tutti gli altri. Oggi più che mai, la politica deve fare propria quella visione della complessità che finora ha trascurato. Certo, sembra più semplice amplificare le contrapposizioni. Ma questa mentalità non porta ad alcun risultato efficace. Nasconde i problemi anziché risolverli.
Da dove si dovrebbe cominciare?
Una comunità si riconosce dall’importanza che assegna alla formazione. A ogni livello, partendo dalle bambine e dai bambini ai quali va assicurata, fin dai primi anni, la possibilità di esercitarsi sulla propria interiorità: di pensare in grande almeno in alcune occasioni, che poi si riveleranno fondamentali in età adulta. La virtù, come insegna Aristotele, si apprende nella pratica e questo vale in ogni fase della vita, per ogni professione.
Comprese quelle della cura?
Specialmente per quelle della cura. La medicina non può essere ridotta a una procedura esclusivamente scientifica, tanto meno all’applicazione di un protocollo che spesso ha finalità difensive non meno che operative. Nel processo clinico le decisioni derivano da una molteplicità di fattori che richiedono la capacità di ragionare caso per caso senza mai perdere di vista la complessità del quadro generale. Ma queste, appunto, non sono competenze che si possano acquisire quando ci si trova già in mezzo al fiume.
Intervista di