Silvia, (cassiera) – Siamo un punto vendita di meno di 500 metri quadrati dove, a quanto ci dicono, dovrebbero starci quasi 100 clienti più almeno una trentina di dipendenti: sempre aperti, dalle 8 alle 21, domenica e festivi compresi. ….. soprattutto dopo le 18 è un vero carnaio”.

Non ci sono controlli della temperatura all’ingresso e nessun contingentamento delle entrate. ….Noi cassiere siamo protette dal contatto con il cliente attraverso un plexiglass, ma poi alle spalle della mia cassa, a meno di 70 centimetri di distanza, c’è l’altra collega. Meno di 70 centimetri….

Julian (anestesista rianimatoreLa morte, siamo abituati a vederla da vicino; è il nostro mestiere e sappiamo come comportarci. Solo che normalmente, di pazienti così gravi come quelli malati di Covid, ne accoglievamo uno a settimana, forse due. Ma adesso si tratta di 22 o 25, e questo dura da un anno. Siamo sempre blindati, altrimenti non ne usciremmo vivi. 

E poi, è psicologicamente molto pesante dover comunicare senza sosta alle famiglie che il padre o il fratello sarà morto nel giro di poche ore. La settimana scorsa, mi è toccato farlo tre volte in tre giorni di seguito…..

Silvia e Julian – le cui testimonianze abbiamo tratto dai media – sono tra quei lavoratori che da più di un anno combattono in prima linea contro la pandemia del Coronavirus; quelli che nei primi tempi – ricordate quando si esponevano i tricolori? quando si cantava in coro sui balconi? – abbiamo giustamente chiamato, “eroi”, ma che oggi sembrano aver perso ogni visibilità presso l’opinione pubblica. E ancor di più presso l’opinione “pubblicata”, dominata da presentatori televisivi politicamente faziosi quanto pateticamente incompetenti che si intervistano a vicenda in sempre più stucchevoli talk shows televisivi. Silvia e Julian appartengono insomma alla categoria di quelli che non scendono in piazza, che non cercano lo scontro con la polizia, ma silenziosamente combattono contro il morbo, e altrettanto silenziosamente si ammalano e muoiono.

Ma, evidentemente, né Silvia né Julian appartengono alle categorie i cui diritti, i cui interessi e le cui difficilissime condizioni di lavoro sono stati presi in considerazione da Mario Draghi nella settimana precedente la sua ultima conferenza-stampa, andata in onda il 16 aprile. Così come è accaduto ai diritti, agli interessi, alle esigenze e ai sentimenti, di altre categorie di lavoratori, altrettanto invisibili, privi di voce propria e completamente ignorati dai demagoghi arruffapopolo in cerca di consensi elettorali che, dentro e fuori della maggioranza parlamentare, quotidianamente “lavorano ai fianchi”, il premier.

Come Silvia e Julian – e insieme a loro – sembrano infatti essere state private di ogni voce, di ogni diritto umano e di ogni rappresentanza di interessi molte altre categorie. Basterebbe ricordare quella degli autisti degli autobus, dove nessuno fa rispettare le capienze massime e le distanze, o quelle degli operai edili o dei metalmeccanici, che continuano a lavorare, anche se per loro è difficilissimo stare a più di un metro l’uno dall’altro. E men che meno sembra avere accesso all’orecchio del premier, né diritto di rappresentanza politica, o capacità di pressione la grande massa dei pensionati, la categoria che paga – e continuerà a pagare – con la vita il prezzo più alto per la interminabile serie di sconfitte sinora subita dalla Repubblica italiana sul fronte della lotta alla pandemia. Forse è il loro nome – insieme a quello della intera comunità nazionale – che avrebbe dovuto fare il ministro Speranza, quando Giorgetti ha orribilmente scagliato la sua arrogante domanda: “ma tu, chi rappresenti?”.

Giustamente ha fatto il Presidente del Consiglio a identificare la posizione del Ministro della Salute con quella sua propria.  Ma è preoccupante ch’egli sia stato costretto a farlo, che abbia dovuto compensare con la propria responsabilità e con la propria forza, l’assenza delle organizzazioni sindacali e di tutti queei gruppi di pressione che, se mobilitati, potrebbero efficacemente controbilanciare i rumorosi e violenti venditori ambulanti, osti e ristoratori. Che potrebbero contrapporsi alla cupa folla che sostiene la imprescindibile necessità di dare immediatamente avvio ad una stagione in cui ci si possa irresponsabilmente affollare davanti a bar e pizzerie. E magari creare quei capannelli che risultano indispensabili ad un’altra categoria, una categoria di cui non si può fare il nome, ma che pure esiste, e soffre parecchio a causa di qualsiasi grado di lockdown venga posto in essere.  La categoria costituita dagli spacciatori di droga.

Si tratta invece di interessi – quelli di lavoratori come Silvia e come Julian – non organizzati in gruppi di pressione. Tutt’al più dovrebbero essere rappresentati dai sindacati, la cui presenza però sembra diventata invisibile  sulla scena della lotta politica  in Italia. E le conseguenze di ciò si sono viste nelle scelte di compromesso che il Capo del governo ha dovuto accattare in questo freddo mese di Aprile.

Anche se Mario Draghi, assediato da ogni parte, ha cercato di mantenersi aperto un sentiero verso un’azione più energica contro la pandemia, sarebbe infatti difficile negare che durante l’oretta scarsa dedicata il 16 Aprile dal premier all’opinione pubblica, si sia assistito ad una evidente e penosa ritirata dello Stato rispetto agli avversari di ogni strategia contro il morbo che implichi sacrifici o anche semplice senso di responsabilità. Così come è apparso evidente che gli unici interessi di cui non aveva potuto evitare di tenere conto erano quelli degli osti, degli “addetti alla restaurazione” e dei proprietari delle palestre. Più quelli degli “ambulanti”, che già si erano fatti violentemente notare qualche giorno prima davanti a Montecitorio.

Ciò gli ha provocato la critica, talora detta a bassa voce,  talora gridata senza mezzi termini come nel caso del professor Galli,  degli ambienti scientifici di tutta l’Italia. Mentre sole, o quasi, si sono espresse in maniera dissonante la voce di alcuni esponenti del mondo universitario, che sembrano ormai aver deciso di utilizzare la popolarità televisiva acquisita negli ultimi tempi per cambiare mestiere e mettersi in politica, abbandonando così ogni possibile pretesa di obiettività scientifica al di sopra delle parti. Una scelta che sembra trasparire in maniera preoccupante dalle parole – che ancora una volta riprendiamo dai quei media, che abbiamo noi stessi indicati come poco affidabili – del prof. Matteo Bassetti: “La politica è mediazione. È chiaro che un epidemiologo vorrebbe riaprire a rischio zero, ma il paese non può aspettare a ottobre-novembre per attivarsi.” Un’ affermazione comprensibile, e forse anche crudelmente accettabile; ma la riflessione di un politicante, non di un uomo di scienza.

Ma c’è, purtroppo, di più; sempre secondo i media. “Chi come me – avrebbe infatti aggiunto Bassetti – “passa la propria vita a lavorare insieme alla propria regione ha forse una maggiore idea rispetto a chi invece lavora contro la propria regione”. Un’affermazione a dir poco strana, che non solo rievoca un patetico patriottismo regionale che sembrava sepolto dopo il collasso della Lega separatista, ma fa pensare anche una nuova versione della “scienza politicamente impegnata”.  Evoca addirittura il fantasma di quel Trofim Lysenko, messo sugli altari da Stalin in persona per aver contrapposto una pretesa “scienza sovietica” alla nascente genetica, condannata come “scienza borghese”.

Fortunatamente, non siamo ancora a tanto, e c’è ragione di sperare che in futuro – nel difficile futuro che ci attende – potremo continuare a contare sul Prof Bassetti e sul lavoro a lui congeniale, quello dello scienziato. Anche perché la storia, come è noto, si ripete. Ma si ripete in modo tale da far sì che quel che all’origine è tragedia si riproduca assai spesso sotto forma di farsa. Come sarebbe infatti possibile definire altrimenti il pietoso attivismo di quei demagoghi, grandi e piccoli, che vanno a caccia del consenso dei meno informati e dei più sprovveduti, proclamando a destra e a manca l’impellente necessità – nel supremo interesse collettivo – di riaprire bar, palestre e ristoranti?

Giuseppe Sacco

 

About Author