In margine al Festival Pianeta Terra

Il Premio Nobel per l’economia 2019 Esther Duflo ha portato una ventata di sano realismo nella tre giorni del Festival Pianeta Terra, organizzato dalla casa editrice Laterza e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. In perfetta assonanza con il ministro Enrico Giovannini, già fondatore dell’Asvis (alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile),  ci ha ricordato come i mondi della politica, della scienza, dell’economia siano in ritardo nella comprensione dei problemi del Pianeta.

L’esplosione della moda green (vedremo quanto concreta) vede la corsa affannosa verso la sostenibilità di tutti coloro (imprese, banche, università, giornali, politici, scienziati) che fino a ieri hanno chiuso gli occhi sui rischi o sugli squilibri del sistema. Certo, c’era l’ottimismo della crescita, del progresso, del futuro. Anche i grigi accademici di Svezia (non abbiamo ancora capito perché così importanti) si sono accorti del problema solamente nel 2018, con il Nobel per l’economia consegnato a Nordhaus, riconoscendo finalmente l’importanza dell’inserimento nel modello teorico del tema del cambiamento climatico e dei costi indiretti dell’inquinamento.

Prima ? Niente. Dobbiamo tornare indietro addirittura di 50 anni. E’ il 1972 quando viene pubblicato il primo volume del club di Roma che porta un titolo significativo, con gli occhi di oggi: “I limiti dello sviluppo”.  Il lavoro, coordinato dallo storico professore del Mit di Boston Dennis L. Meadows, viene pubblicato nella forma di rapporto sulle tendenze e sulle interazioni tra aumento della popolazione, disponibilità di cibo, riserve di materie prime, sviluppo industriale e inquinamento. Seguiranno gli studi di Nicholas Georgescu-Roegen e altri rapporti.

Tra questi ricorderei quello sulle “Strategie per sopravvivere” di Mesarovic e Pestel (1974), in cui il mondo viene rappresentato come un sistema, cioè un insieme di parti mutuamente interagenti e interdipendenti, e “Oltre l’età dello spreco”, coordinato dal nobel per la Fisica D. Gabor (1976), in cui viene predisposto un vero e proprio inventario complessivo delle risorse del pianeta, il punto sulle tecnologie conosciute per trasformarle e usarle, i costi umani e ambientali conseguenti. Questo studio del 1976 si domanda esplicitamente se sarà possibile sostenere la domanda di una popolazione che raddoppia, se sarà possibile pensare al riciclo, ponendo come obiettivo quello di contenere gli sprechi. Con il 1978 si tocca anche il nodo energia con lo studio di De Montbrial, “Energia, conto alla rovescia”, che profeticamente vede avvicinarsi  il momento in cui l’offerta non potrà più soddisfare la domanda, mentre auspica una politica energetica comunitaria europea.

Dopo ? Tutto fermo. Lettera morta. La fede nel mercato autoregolato, il mito del ruolo taumaturgico della tecnologia, l’accettazione acritica del modello di sviluppo predominante hanno tenuto il mondo sotto vuoto. Una campana innaturale e incosciente. La teoria economica ha dato per scontata la crescita continua, occupandosi della perfezione formale del modello ma non delle sue applicazioni e conseguenze reali.

Se è vero che i progressi nel settore sanitario hanno prolungato la vita umana, contribuendo a loro volta all’aumento esponenziale della popolazione mondiale, è altrettanto vero che più della metà di questa ha solo lo stretto necessario per vivere, con l’aggravante di una distribuzione disuniforme delle risorse, dei capitali per investire e produrre, come delle stesse conoscenze tecniche. Una disuguaglianza di fatto, sempre più a danno delle aree deboli del pianeta. In più lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali ha condotto lo stesso mondo “ricco” ad un amaro risveglio. Le metropoli di 10/20 milioni di abitanti improvvisamente sono passate da essere un vanto del progresso umano a simbolo di una decadenza, di un progetto di convivenza obsoleto o addirittura nocivo. Nel frattempo, come ci ricorda il botanico Stefano Mancuso, decine di specie si estinguono quotidianamente con un impoverimento progressivo di quella straordinaria ricchezza biologica della natura che eravamo chiamati a mantenere e proteggere. Così si allevano e si mandano al macello milioni di capi di bestiame in parte lasciati poi a scadere sui banchi dei centri commerciali. Un sistema né efficiente né razionale.

Mentre il nuovo millennio si è fatto annunciare nell’ordine da una crisi demografica e migratoria, da una crisi finanziaria (2207-2013), da una crisi energetica (senza dimenticare quella virale). Ora tutti sono per la sostenibilità. Ma questa sottintende solamente la “correzione” di un modello ancora valido. Basta renderlo sostenibile e via … possiamo continuare con le vecchie abitudini. Ecco perché la sostenibilità non basta più. Fin troppo facile è progettare auto sostenibili, pasta e olio sostenibili, carta sostenibile.

Non è mai tardi per capire che la vera difficoltà consiste nel governare una società complessa, spesso in competizione con i sistemi naturali, con le sue istituzioni, i meccanismi di potere, i giochi spesso insensati della finanza, le sfide sulla equità, sull’equilibrio e sulla qualità delle relazioni tra popolazioni diverse. Perché la tecnologia è importante, ma non basta, il mercato è utile, ma non basta. Nella gestione delle conseguenze di un rialzo dei prezzi delle materie prime, nella soluzione delle crisi energetiche, nella soluzione della possibile penuria di alimentazione per una popolazione crescente, tecnologia e mercato non bastano. Serve quindi una consapevolezza critica sulle relazioni tra fattori culturali, sociali e politici da un lato e ricerca e sviluppo tecnologico dall’altra.

E’ il tema dei denominatori comuni. E’ ancora uno studio degli anni ’70 a darci la direzione. Il volume “Goals of Mankind” (Obiettivi per una società globale), coordinato da Ervin Lazlo, sempre del 1977, indica una metodologia oggi più che mai di attualità: stabilire obiettivi che possano essere accettati da culture, religioni, ideologie diverse e divergenti. Molte popolazioni mondiali sono state messe all’angolo, specialmente le più legate ad insegnamenti e tradizioni valoriali (es. indigeni). Ma l’uomo è fondamentale, con i suoi principi, credenze, visioni, tradizioni. Sul tavolo, le intricate connessioni tra cibo, agricoltura, materiali, energia e … motivazioni umane.

La vera inefficienza consiste proprio nello spreco. Di risorse naturali, non infinite e di risorse umane, spreco in questo caso dovuto alla disoccupazione, alla sottoccupazione, alla cattiva alimentazione, ma anche al lavoro ripetitivo, non creativo, senza soddisfazioni, alla lunga omologante e massificante, opprimente e potenzialmente improduttivo. Rimane solo l’uomo consumatore, che si aggira come un novello Parsifal tra i milioni di scaffali pieni zeppi di beni spesso inutili. E’ quella povertà nell’abbondanza ancora più inconcepibile alle porte della nuova ondata demografica che porterà gli abitanti del pianeta a 10 miliardi, con la vicina Africa a circa 2 miliardi.

Cosa fare? Non basteranno semplici ritocchi o singoli interventi legislativi, e certo non basterà rifarsi ai vecchi principi ormai obsoleti. Servirà la spinta della innovazione certamente, ma soprattutto il coraggio della visione, filosofica, valoriale, di senso, ad un tempo universale e rispettosa delle diversità, delle specificità.

E’ il finale del festival a darci un segno. La meraviglia della ciaccona di Bach eseguita dal grande violoncellista Mario Brunello e la meraviglia della struttura dell’albero raccontata ancora da Mancuso (24 alternative, come le tonalità musicali). Una analogia che ci parla di cosmo, di armonia, di sacro, di ecologia profonda, integrale.

Francesco Poggi

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