“La civiltà moderna è un abito molto usato né vi si possono applicare nuovi rammendi. E’ necessaria una rifusione totale e come sostanziale, un rovesciamento dei principi della cultura, giacché si tratta d’arrivare ad un primato vitale della qualità sulla quantità, del lavoro sul denaro, dell’umano sul tecnico, della saggezza sulla scienza, del servizio comune delle persone umane sulla cupidigia individuale di arricchimento indefinito o sulla cupidigia statale di potenza illimitata”.

Lo affermò Jacques Maritain fin dagli anni ‘30. Si tratta di parole talmente pertinenti ai giorni nostri, da apparire profetiche, ispirate a quel processo non più di adattamento riformista, bensì di trasformazione che anche oggi merita d’essere evocato.

Anche su queste pagine si è scritto, in più occasioni, della svolta epocale o, in altri termini, delle sfide che, ad un tempo, ci assediano, eppure, a dispetto delle inquietudini che le accompagnano, sembrano orientate, se così si può dire, ad un incremento di consapevolezza di sé dell’ umanità. Sfide impellenti che non possono essere affidate solo – come pur dev’essere – ai tempi più distesi di una riflessione culturale, ma tali da esigere che la politica, senza frapporre dilazioni perniciose, si faccia carico di una risposta.

Viviamo l’età delle trasformazioni in corso e di quelle che si annunciano, del loro “indotto” antropologico, del cambio di paradigma che è necessario imprimere ai nostri comportamenti. Quasi fossimo sospinti – o forse meglio attratti, come se un tempo nuovo ci assorbisse, attirandoci verso di sé – a superare una soglia invisibile, oltre la quale avvicinarci maggiormente a quel nucleo più intimo della nostra essenza umana, di cui forse non abbiamo ancora esplorato del tutto la ricchezza. A tale proposito – forse aiuta partire dall’ approdo conclusivo e ragionarci a ritroso – la tesi che si vorrebbe sostenere è questa, per quanto ipotetica: siamo provocati a riconvertire uno sviluppo incentrato su criteri e valori di ordine economico-produttivo in processi che siano, invece, misurati sui fattori di valore umano che mettono in gioco. E siamo tenuti a farlo senza fermare la macchina, nel fluire ininterrotto del continuum spazio-temporale concesso ai nostri giorni. E solo questo tipo di sviluppo merita il nome di progresso.
Senonché’, per comprenderne la portata, la “svolta epocale” va declinata secondo gli specifici versanti che, sommandosi, concorrono a darne conto.

Ed almeno alcuni possono essere elencati. La globalizzazione, intesa come fenomeno polimorfo che ne attraversa e ne ingloba altri, quali l’ incalzante sviluppo scientifico e tecnologico; i fenomeni migratori e lo sviluppo multietnico delle nostre comunità; la crescita esponenziale dell’ informazione e della comunicazione; il degrado ambientale e l’intera gamma delle condizioni estreme che reca con sé.

Dovremmo chiederci, anzitutto, se e come questi processi abbiano qualcosa che li accomuna nella loro genesi oppure negli effetti che producono. E quale sia l’indotto della loro contestualità sulla stessa “comprensione” di sé che oggi l’ umanità va maturando. La globalizzazione altera, ben più di quanto non avvertiamo, quella percezione di fondo di spazio e tempo che rappresenta lo sfondo e la cornice che accolgono ogni nostra esperienza. E’ come se la legge della relatività, oltre che al mondo fisico, si applicasse anche al nostro vissuto, cosicché quanto più lo spazio si dilata nella misura in cui cresce la velocità con cui lo percorriamo e, dunque, la distanza che copriamo nell’unità di tempo, tanto più il tempo si coarta e si addensa attorno all’attimo presente.

E’ soprattutto la crescita incessante della ricerca scientifica e, in modo particolare, le sue imponenti ricadute bio-tecnologiche, a produrre una condizione storicamente del tutto inedita e di scivolosa, difficile interpretazione.
L’ uomo si trova ad essere, ad un tempo, soggetto ed oggetto della propria azione. Il che lo fa oscillare tra due posizioni estreme: un sogno di onnipotenza, come se potesse farsi da sé, porsi come fondamento auto-sufficiente di sé stesso e, conseguentemente, per contro, consegnato ad una asfissiante solitudine.

L’ accumulo di informazioni che incessantemente subentrano le une alle altre e la facilita d’accesso a fonti conoscitive inesplorate mettono a dura prova la capacità di ognuno a comporre in una sintesi ragionata e dotata di senso un insieme di apporti che, lasciati correre per il loro verso, rischiano di favorire una dissipazione del nucleo tematico su cui insiste l’identità di ciascuno. Ed è, questo, un prezzo che pagano soprattutto le più giovani generazioni. In quanto alle migrazioni è comprensibile, in fondo, la prudenza, altre volte la perplessità, se vogliamo perfino l’ostilità e la facile strumentalizzazione che certa politica ne promuove, dato che, di fronte al
migrante – di fronte al diverso in senso lato, ad esempio il disabile oppure l’alienato mentale – è come se ci osservassimo in uno specchio concavo, che, a secondo della distanza, ci rinvia un’ immagine diretta o piuttosto rovesciata di noi stessi.

Ciò che fa problema e disturba e predispone ad atteggiamenti di rifiuto non è, dunque,  il pregiudizio xenofobo, ma piuttosto la domanda che, sia pure inconsapevolmente, concerne noi stessi ed il timore di dover uscire dal proprio bozzolo per darvi risposta, guardando, negli occhi del “diverso”, la propria immagine rovesciata.

A sua volta, il degrado ambientale, in un mondo talmente antropizzato da far sì che la cultura, l’insieme dei nostri comportamenti prevalga sulla natura, genera l’onere faticoso di una responsabilità personale nei confronti del mondo che ci ospita, della quale una volta non dovevamo farci carico, dato che non potevamo fare altro, nel bene come nel male, se non consegnarci alla forza anonima della leggi fisiche.

Insomma, a ben vedere, se c’è un fattore comune a questi versanti è dato dal fatto che siano, prima che fenomeni sociali, profili che attraversano la coscienza personale di ognuno. Solo nell’interiorità di ciascuno – laddove si afferma quella che Maritain chiama, ben oltre il libero arbitrio, “libertà d’autonomia” o spirituale – trovano il momento di quelle necessarie compensazioni, che, proiettate sul piano collettivo, rendono governabili questi processi. A riprova di quanto la politica abbia bisogno di una cultura e di un indirizzo di stampo personalista.

Domenico Galbiati

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