I sondaggi lasciano il tempo che trovano e, quindi, non bisogna farci gran conto. Forse sono più attendibili quando, come succede da parte del telegiornale de La7, sono fatti metodicamente e per un lungo periodo, secondo una cadenza predeterminata e costante – in questo caso settimanale – e, pertanto, consentono, se non altro, al di la del dato numerico più o meno puntuale che viene segnalato, di apprezzare una tendenza ed il significato della sua evoluzione temporale in rapporto ad ogni singola forza e, soprattutto, gli scostamenti reciproci tra un partito e l’altro, anche nell’ambito dello stesso polo.

Se poi questi ultimi sono, in modo attendibile, rapportabili ad eventi di un certo interesse politico intercorsi tra una rilevazione e l’ altra del sondaggio, se ne può forse derivare, con la dovuta prudenza, qualche considerazione predittiva, che possa, cioè, essere proiettata su un più ampio arco temporale.

Non è escluso che, nei prossimi mesi, la pressione delle riforme destinate ad accompagnare o addirittura precedere l’erogazione dei fondi europei ci riservi delle sorprese, se non in termini di schieramento e di composizione della maggioranza di governo, con ogni probabilità in quanto a difforme ridistribuzione del consenso.

Ad ogni modo, ai nastri di partenza della “grande boucle” delle riforme promesse e promosse da Draghi , la Lega, pur continuando ad essere il partito tendenzialmente più votato, non ha più il vento in poppa, ma neppure demorde.

Il PD non ha messo a frutto il cambio di passo della nuova segreteria, oscilla entro una ristretta banda di valori, sotto la soglia del 20% e precede solo di una incollatura Fratelli d’Italia che lo incalza da vicino, al punto che la stessa Lega, che pure precede di una buona lunghezza il PD, comincia a sentire sul collo il fiatone della Meloni. Il che – oltre l’abito mentale pregiudizialmente conflittuale che gli appartiene e dalla cui logica oppositiva non riesce ad uscire – spiega le smanie di Salvini.

Per un verso l’attrattività della Meloni invade gli spazi elettorali della destra ben oltre il recinto della sua originaria cultura politica e, quindi, se da un lato concorre alla piattaforma di lancio con cui Salvini immagina di ergersi a “re” di Palazzo Chigi, per altro verso rischia di declassarlo a palafreniere della “regina”.

Forza Italia galleggia come un tappo di sughero in acque stagnanti ed in via di essere del tutto prosciugate. A mano a mano decresce la personale esposizione di Berlusconi, si fa talmente grigia l’involuzione del suo partito da indurre il sospetto che la povertà e l’inerzia politica dei suoi quadri sia l’effetto, ma, nel contempo, la causa dell’ assoluta ed incontrastata “signoria” che Berlusconi vi ha dovuto esercitare.

Insomma, da queste parti, tra aspiranti sovrani, potenziali regine ed un blasonato “dominus” c’è poco o nulla da scegliere per chi volesse dar luogo alla vigorosa trasformazione di un assetto politico-istituzionale che sia effettivamente in grado di garantire un ordinamento democratico all’altezza della sfida del tempo post-moderno. Non si sta meglio e non se ne ricava di più dall’ altra  parte.

Del PD si è già detto. Il Movimento 5Stelle vive in un limbo inquieto aspettando un Godot che rischia sì di giungere alla meta, ma già “dimezzato” come il barone di Calvino. Nel partito di Renzi  “viva” più che un aggettivo, sembra essere un congiuntivo o addirittura un imperativo, in cui prende forma  la disperata invocazione di una ciurma alla deriva, che assiste al progressivo evaporare di un’avventura baldanzosa, senonché l’ultimo a preoccuparsene sembra essere appunto “Matteo d’Arabia”, l’eterno ragazzo di Rignano che veleggia verso  altri lidi. Restano marginali Bersani per un verso e Fratoianni per l’altro.

Il dato che accomuna i due schieramenti è la sostanziale autoreferenzialità di entrambi e, sulla scorta di questo tratto condiviso, la necessaria complicità che ne consegue nel blindare un sistema che, comunque vada di volta in volta il responso elettorale, garantisce entrambi.

Senonché questo reciproco incaprettamento dei due poli allontana sempre più la politica dal senso comune degli effettivi interessi che si muovono nel Paese, cosicché non a caso cresce il numero dei cittadini che sistematicamente rifiutano di recarsi alle urne, a tal punto di dar vita ad una sorta di area stabilmente, si potrebbe dire, di natura o di sentimento di fatto “extraparlamentare”. Con tutta l’aleatorietà potenzialmente scivolosa che ne deriva in quanto a tenuta effettiva del dato democratico.

Il confronto politico si risolve in un gioco del tutto interno al “sistema”, in cui convivono due versanti in sé contraddittori: da una lato una pervicace incomunicabilità   – in questa fase appena e faticosamente mascherata dalla comune appartenenza alla maggioranza che agogna i ricchi premi ed i cotillons del PNRR – dall’altra, almeno fin qui,  una persistente inerzia ad affondare i colpi nelle questioni vere e dirimenti che stanno di fronte al Paese. Qui, se non altro, la direzione d’orchestra di Draghi sembra finalmente imporre un’altra musica.

Non succederà, eppure sarebbe quanto mai opportuno che l’Italia venisse restituita agli italiani, che le forze politiche – ciascuna per la propria parte; ciascuna in autonomia; ciascuna secondo la “cifra” della propria originaria  identità – accettassero di misurarsi con gli italiani, di fare una sorta di “tagliando” che ne certifichi la sintonia e la rispondenza con il Paese.

Un bagno che sia, ad un tempo, un esercizio di realismo, di verifica e di umiltà diretto a rigenerare, per chi ne sarà capace, un rapporto vitale, non occasionale, fondato su una rispondenza calibrata sulle culture in campo, prima che sulla loro immediata e contingente espressione politica, con il cuore della pubblica opinione, da interpretare secondo la logica “programmatica” di cui ogni forza politica è tenuta a dar conto.

In fondo, non si tratta nemmeno di impiccarsi, una volta per sempre, ad un sistema elettorale piuttosto che ad un altro, ma fors’anche, in un contesto storico così accelerato e rapidamente mutevole, di alternarli, secondo una intelligente lettura del corso degli eventi, perché meglio si concilino rappresentanza e governabilità.

Purché ci sia un momento che periodicamente, almeno in occasione di scenari nuovi che si annunciano irrevocabilmente – come succede oggi, tra globalizzazione e pandemia – le forze politiche, anziché imbragare il consenso con vari marchingegni elettorali di marca maggioritaria, abbiano l’ardire di guardarsi francamente nello specchio del Paese e, se mai, comunque da lì ripartire per percorsi di reciproco coinvolgimento e di relazione strutturate nel tempo.

Domenico Galbiati

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