Primo febbraio 1893: sul treno tra Termini Imerese e Trabia viene ucciso con 27 pugnalate il banchiere e politico palermitano Emanuele Notarbartolo. Il suo omicidio viene considerato il primo caso di esecuzione mafiosa «eccellente». Don Luigi Sturzo, futuro fondatore del Partito popolare, scrive un testo teatrale, La mafia, che si ispira a questa vicenda: viene messo in scena per la prima volta nel febbraio del 1900 nel suo paese di origine, Caltagirone, nel Teatro Silvio Pellico da lui fondato.
Adesso l’opera toma in palcoscenico, interpretata da cinque allievi dell’Accademia nazionale d’Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma e da cinque ex allievi della scuola Orazio Costa di Firenze, con il nuovo adattamento teatrale e la regia di Piero Maccarinelli, e con la consulenza del pronipote del sacerdote calatino, il magistrato palermitano Gaspare Sturzo. Il debutto dello spettacolo è previsto il 7 maggio al Teatro Eleonora Duse a Roma e, poi, il 10 maggio alla Pergola di Firenze. «Si tratta di un testo tuttora inedito – spiega il regista – che verrà pubblicato a cura della
Fondazione Sturzo proprio in occasione della messinscena. L’autore affronta, in maniera potente, il problema della collusione fra potere politico e potere mafioso nella società civile del suo tempo, nella terra dove è nato.
Partendo dall’analisi del caso Notarbartolo, che tanto clamore aveva suscitato in quegli anni e che lo aveva colpito
profondamente, Sturzo descrive con grande abilità e sapienza, senza ima precisa collocazione geografica, tanto che non è scritto in dialetto siciliano, le modalità secondo cui la mafia sa interagire e determinare il potere politico, e come di questo essa si nutra». Notarbartolo rivestì cariche importanti: direttore del Banco di Sicilia, sindaco di Palermo, deputato del Regno. «In quegli anni — interviene Gaspare Sturzo, da sempre impegnato sul fronte dei processi di mafia — era un pilastro dell’economia siciliana e della politica nazionale, ma purtroppo era circondato da
altri importanti notabili che erano invece collusi con la mafia e ai quali lui si oppose con coraggio e tenacia… per questo venne ammazzato».
Chi fu a decidere la sua esecuzione? Risponde Maccarinelli: «il mandante fu individuato nella figura dell’onorevole
Raffaele Palizzolo, che in un primo momento venne condannato e poi, guarda caso, assolto in appello nel 1905. Anche a quel tempo era difficile celebrare certi processi». Tanto che don Sturzo, in un articolo pubblicato sul suo giornale, «La Croce di Costantino», prima della rappresentazione del testo in teatro, commentava le difficoltà e i ritardi in cui languiva il processo a carico dei sicari e dei mandanti dell’omicidio del cavaliere Notarbartolo. Inoltre, si era pinto a contestare l’inquinamento della vita sociale, culturale, economica e politica della giovane nazione, l’Italia, evidenziando fra l’altro che la mafia stringe nella sua morsa giustizia, polizia, pubblica amministrazione… Ha i piedi in Sicilia ma afferra anche Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi del Parlamento, costringe uomini, creduti fior di onestà, ad atti disonoranti, violenti. Nel testo emerge anche un altro sinistro personaggio: il mafioso Accarano, una sorta di Salvatore Riina dell’epoca.
Don Sturzo si chiede: come potremo educare i nostri figli, quali esempi daremo loro? Insomma, si tratta di un deciso,
coraggioso atto di denuncia? «Assolutamente sì – ribatte Maccarinelli – e don Sturzo lo compie utilizzando lo strumento del teatro: egli credeva in un teatro attivo, militante e politico nei contenuti, un’agorà dove affrontare problemi reali, urgenti. Era siciliano, e fu molto colpito da questa vicenda, voleva capire il meccanismo della collusione; ed era un cattolico militante, perciò chiese al mondo religioso di condividere la sua denuncia, senza se e senza ma». Era una voce fuori dal coro del Vaticano? «Era un personaggio scomodo – ammette il regista -. Diciamo che le sue scelte non furono molto condivise e, anzi, in molti casi avversate. Fra l’altro, fu prosindaco di Caltagirone, e a causa della sua battaglia morale e civile ricevette numerose minacce. Subì anche delle sconfitte, ma non si è mai fermato, mai arreso, proseguendo con il suo “ottimismo impenitente”… era decisamente convinto, a ragione, di essere nel giusto». In altri termini stava nel coro del Vaticano in maniera critica, sollevando obiezioni?
«Proprio così – continua Maccarinelli -. Credeva nell’impegno dei cattolici nella vita civile e politica, li incitava ad assumere una posizione chiara su mafia e corruzione. Purtroppo le dinamiche delinquenziali da lui sviscerate nell’opera non sono molto cambiate neppure ai nostri giorni».
Come mai, dal 1900 a oggi, la pièce non è stata mai più rappresentata? «In verità esiste un precedente allestimento negli anni Sessanta da parte di Diego Fabbri, con un finale da lui riscritto un po’ pirandelleggiante – spiega Maccarinelli -. La pièce originale contempla infatti cinque varianti e, dell’ultimo atto, restano solo due scene scritte da Sturzo. Molti si sono interrogati su questa curiosa questione: alcuni sono convinti che sia stato l’autore stesso a distruggere il resto, forse perché era troppo riconoscibile il suo paese, Caltagirone; altri affermano che le scene mancanti sono state sottratte da terze persone, chissà perché… una faccenda controversa. Per quanto mi riguarda – è
il mio compito di regista – ho deciso di condensare tutto in un atto unico e lasciare il finale sospeso, che a mio avviso è più potente, dal momento che non formula giudizi sul bene e sul male. In altre parole: vince il buono o il cattivo? Non ha importanza, ciò che conta è evidenziare quanta sporcizia morale ci sia in giro e il modo in cui il marcio si impossessa della società in modo subdolo. L’interrogativo viene posto agli spettatori, che si daranno una risposta».
Perché riportare in palcoscenico un testo che si riferisce a un episodio che si consuma alla fine dell’ottocento? «Perché anticipa ciò che avviene tuttora – afferma Maccarinelli -. Oltretutto l’opera non presenta nessuna
geolocalizzazione, è scritta in italiano perfetto e non contiene alcun elemento che si riferisca a fatti accaduti in Sicilia o in quell’epoca. Non parla di sicilianità, perché se così fosse sarebbe un testo archeologico. L’analisi di Sturzo è strutturale del fenomeno in sé e ciò che avviene nella trama può succedere oggi, ovunque, è uno spaccato di processi
che abbiamo visto avvicendarsi negli ultimi anni. In questo consiste la sua grandezza: raccontare avvenimenti senza affondare nel folklore locale. La mafia esiste, ma esistono anche gli strumenti per combatterla e reprimerla: coloro che si sono macchiati di reati criminali prima o poi saranno chiamati a pagare, ad assumersi le proprie responsabilità. È un messaggio forte, non solo per via giudiziaria»
Perché avete deciso di affidare l’interpretazione a giovani allievi d’accademia? Riflette Maccarinelli: «Oggigiorno, la mafia ha raggiunto livelli internazionali, che superano di gran lunga i confini regionali dell’isola. È un cancro da cui non è facile guarire. Ma i giovani rappresentano il nostro futuro, la speranza di un cambiamento». Concorda Gaspare Sturzo: «L’Istituto Luigi Sturzo ha realizzato il progetto “Controlemalebestie” allo scopo di contribuire e costruire una cultura della legalità tra gli studenti, attraverso l’utilizzo del linguaggio teatrale, cinematografico e della lettura. Le generazioni più giovani svolgono un ruolo insostituibile nella comunicazione e nella condivisione di valori positivi è dell’impegno civile. Il comitato promotore di questo progetto, rifacendosi all’insegnamento di Luigi Sturzo –
conclude -, ritiene che la difesa della democrazia repubblicana debba passare per la libera formazione delle coscienze proprio dei giovani, rimuovendo l’apatia dell’indifferenza».
Emilia Costantini
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