Gli amici dell’Associazione ” I Popolari del Piemonte” hanno tempo fa elaborato un documento sul problema delle migrazioni che conserva tutta viva la sua attualità. Negli ultimi tempi, è come se alla questione immigrati fosse stata messa la sordina. Se da un punto di vista la cosa dev’essere giudicata positivamente, dall’altro, c’è da considerare che un fenomeno epocale non può essere ignorato ed è forse proprio il caso di tornarne a parlarne proprio oggi in maniera seria e costruttiva.

Dalla conferenza sul fenomeno migratorio tenuta il 16 giugno 2017 presso l’Educatorio della Provvidenza di corso Trento 13 a Torino, abbiamo ricavato questo documento.

La sua base è nell’ampio intervento del professor Giuseppe Ladetto, editorialista di “Rinascita popolare”, integrato dalle considerazioni del dottor Alessandro Risso, presidente dei Popolari piemontesi, i due relatori dell’incontro.

La bozza ricavata è poi stata poi vagliata dai componenti del Consiglio Direttivo che hanno contribuito a  puntualizzare e ampliare alcuni passaggi, arrivando a definire il documento finale, che la nostra Associazione propone ora alla lettura e alla riflessione.

Premessa

Il tema “immigrazione” è sempre divisivo.

In genere, si assiste con disagio ai dibattiti sull’immigrazione che si risolvono in dialoghi tra sordi o in scontri ove prevalgono posizioni dettate da ideologismi. Vengono, infatti, ripetuti sempre gli stessi discorsi. Si introducono, a sostegno della propria tesi, valori (accoglienza, solidarietà, o, all’opposto, sicurezza, difesa dell’identità nazionale) certamente reali e positivi, ma sempre assolutizzati, senza mai tenere conto che dovrebbero invece essere bilanciati tra loro.

Difettano inoltre i dati quantitativi indispensabili per comprendere i fatti.

In primo luogo riteniamo utile affrontare due questioni preliminari al dibattito sulla situazione attuale del fenomeno migratorio, necessarie per ricondurlo entro binari razionali e condivisi.

Primo. Il fenomeno “migranti” è strettamente intrecciato con altre problematiche che contrassegnano il nostro tempo (modificazioni climatiche; eccessivo consumo delle risorse, rinnovabili e non; squilibri demografici, aumento del divario tra ricchi e poveri, disoccupazione, sradicamento delle singolarità collettive, progressiva soppressione delle differenze culturali, guerre “a pezzi”, terrorismo, inquinamento, perdita di terreni agricoli e del manto forestale, e via dicendo). Queste situazioni critiche devono essere affrontate tenendo sempre conto delle ricadute negli altri ambiti. Ciò vale anche per quanto riguarda l’immigrazione, un fenomeno complesso che non può essere banalizzato con analisi superficiali e affrontato unilateralmente con soluzioni semplicistiche, come bloccare ogni accesso oppure lasciare incondizionate aperture pensando che gli spazi nei Paesi ritenuti opulenti siano infiniti.

Secondo. Chiunque abbia qualche confidenza con la ricerca scientifica sa che non è possibile esprimere valutazioni di merito su un qualsivoglia fenomeno prescindendo dai dati quantitativi. La crescita quantitativa modifica la natura stessa di ogni fenomeno o di ogni oggetto, facendone una cosa diversa, nuova. Ciò vale anche per gli eventi migratori. I dati quantitativi non possono essere trascurati, sia per quanto riguarda il numero delle persone coinvolte, sia per le capacità di accoglienza di un territorio. È il caso di chiedersi se non fa differenza che in Europa possano giungere nel prossimo decennio alcuni milioni di immigrati oppure centinaia di milioni (uno scenario, quest’ultimo, adombrato anche da Jim Yong Kin, presidente della Banca Mondiale). E altrettanto quando sentiamo dire che l’immigrazione offre opportunità di sviluppo e possibilità di crescita a un Paese: è la stessa cosa per il Canada, che ha 3 abitanti per kmq, per l’Italia che ne ha 200 e per l’Olanda, che ne ha più di 400? Inoltre ha poco senso fare confronti con l’emigrazione italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, quando i Paesi di approdo avevano una bassissima densità demografica (perché svuotati delle popolazioni indigene) e gli eventi odierni che coinvolgono una Europa già densamente popolata.

Quando talora si parla di numeri, questi sono registrati nella sola dimensione statica, mentre sempre dovrebbero essere visti nella loro dinamica. Come valutare la presenza di stranieri a Torino passata da meno dell’1% della popolazione negli anni Ottanta al 17% di oggi? Proiettando un tale tasso di crescita nei prossimi decenni che città si avrebbe? Pensiamo sia lecito e necessario interrogarsi in materia.

Dobbiamo però metterci allo specchio e chiarire senza ipocrisie l’approccio etico e intellettuale al problema migranti per chi appartiene alla cultura cattolico democratica.

Non è possibile affrontare un tema di questa portata senza fare i conti con l’insegnamento evangelico. Le parole di Gesù di Nazareth non si prestano ad equivoci. Nel Vangelo spiega ai giusti perché saranno salvati: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me “(Matteo 25, 35-40). Il credente ha quindi un modello da seguire verso gli ultimi, quello della compassione e della attiva carità verso il prossimo: il modello del “buon samaritano” (Luca 10, 25-37) che, imitato, permette di “ereditare la vita eterna”.

Quindi sul piano del comportamento morale del singolo la carità, la solidarietà e l’accoglienza non sono in discussione. Come è ovvio che la risposta caritativa a un ampio fenomeno sociale deve essere anche comunitaria, non intendendo soltanto il livello ecclesiale, ma quello della comunità civile. La soluzione deve essere non del singolo o della Parrocchia o del volontariato associato, ma appunto comunitaria, civile, attraverso la costruzione di un’organizzazione sociale nuova, più solidale e inclusiva.

Comunque, “chi salva una vita salva il mondo intero”, ricorda il Talmud. Ma salvare una vita è più semplice che salvare una moltitudine o l’umanità intera. Il buon samaritano trovò un viandante “e si prese cura di lui”. Ne avesse trovati altri venti sul suo cammino?

È capitato a tutti di andare al mercato e incontrare un povero questuante, italiano o straniero, al quale abbiamo dato un aiuto. Ma oggi, ogni volta che usciamo, incontriamo almeno una decina di giovani africani che chiedono l’elemosina: diamo qualcosa a tutti, o scantoniamo? E quando arriveremo a incontrarne cento?

Queste domande, che interrogano ciascuno, servono solo a ribadire che i numeri sono una parte ineludibile del problema “migranti”. Non considerare la portata quantitativa del fenomeno, limitandosi a una pregiudiziale presa di posizione individuale, impedisce di condurre un’analisi seria e può solo condurre a soluzioni semplicistiche e inadeguate.

Accolte queste premesse, possiamo passare a ulteriori domande di approfondimento.

  1. I migranti e l’Europa

Qualcuno ritiene che l’Europa possa essere una terra di massiccia immigrazione tenuto conto che ha una densità demografica media di 100 abitanti per kmq (gli Stati Uniti 31) ma che nei Paesi verso cui è principalmente indirizzata l’immigrazione supera ampiamente i 200 abitanti e sovente i 300 per kmq? Va sempre tenuto conto che già oggi il tenore di vita degli europei non è sostenibile con le sole risorse del proprio territorio, ma ne richiede anche dal resto del mondo. Quindi, l’Europa sarebbe in grado di accogliere decine o centinaia di milioni di immigrati?

Ia) In un’Europa già densamente abitata, un teorico, modesto declino demografico (un calo del 2-3% a ogni generazione) potrebbe essere considerato positivo. È invece patologico quello attuale quando (come in Italia e Germania) il calo è superiore al 30%. Viene quindi ritenuto necessario che i vuoti di popolazione giovanile siano riempiti da giovani immigrati.

Ma fino a che punto e con quali conseguenze?

Ricordiamo che non degli xenofobi, ma il cardinale Ratzinger, non ancora Pontefice, denunciando la denatalità che affligge il nostro continente, disse di intravedere il tramonto dell’Europa ove la sua vita fosse affidata ai soli “trapianti”, che porteranno a eliminare la sua identità e la sua civiltà millenaria. Sarebbe bene chiarire se questa sia o meno una questione di secondaria importanza, che può essere trascurata in nome dell’accoglienza.

C’è ancora qualcuno a cui importi qualche cosa della millenaria civiltà europea?

Poco deve importare per primi proprio a quei politici europei che hanno preferito non inserire il riferimento alle “radici cristiane” nella Costituzione europea, poi accantonata dopo la bocciatura nei referendum di Francia e Olanda. Un’Europa che disconosce le proprie evidenti radici culturali – per laicismo, superficialità o relativismo culturale che sia – è più debole di fronte alle sfide della globalizzazione e dei fondamentalismi. Ed è evidente che importi poco a coloro per i quali sembrano contare di più il PIL e i contributi pensionistici. Scelta legittima, basta solo dire con chiarezza che si rinuncia a ciò che noi siamo perché oltre una certa soglia di ingressi viene meno ogni possibilità di assimilazione dei nuovi venuti e, con numeri elevati, la stessa integrazione diventa problematica.

Ib) Si dice che gli immigrati sono indispensabili per svolgere quei lavori che i residenti non intendono più fare e che pertanto non si pongono in competizione occupazionale con questi ultimi. Questa tesi è sostenuta in particolare da esponenti del mondo economico e imprenditoriale, nonché da ambienti cattolici. Una tesi contraddetta dagli economisti di area progressista Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, i quali, in un recente volume (Il film della crisi, edizioni Einaudi) scrivono: “I fenomeni migratori hanno contribuito a indebolire i lavoratori dei Paesi ricchi, che, specialmente nei settori a bassa qualificazione professionale, hanno subito la pressione concorrenziale dei lavoratori provenienti dai Paesi in via di sviluppo”. Non è una novità. In materia, già Carlo Marx aveva messo in evidenza il ruolo assegnato all’“esercito industriale di riserva” nel comprimere verso il basso i salari della classe lavoratrice britannica (un esercito formato a quel tempo in significativa misura da soggetti provenienti dalle aree più periferiche del Paese o da immigrati irlandesi).

Al di là di questo aspetto, occorre domandarsi se sia accettabile presumere che esistano lavori inadatti per noi da riservare a soggetti dalle esigenze limitate, quali sarebbero gli immigrati. Crediamo sia pericoloso sovrapporre a una distinzione fra tipologie lavorative (soddisfacenti sul piano retributivo e per considerazione sociale oppure disagevoli poiché faticose e mal pagate) una differenziazione etnica: è come spargere benzina vicino al fuoco.

Infine, se fosse vero che l’economia europea ha bisogno di immigrati, spetterebbe al Paese ospitante decidere quanti e quali immigrati accogliere o sono le esigenze di questi ultimi a prevalere in materia? Ad esempio, da sempre gli Stati Uniti scelgono i migranti in base alle proprie esigenze, in primis sul piano della facilità di integrazione.

Ic) Viene ancora detto che gli immigrati sono indispensabili per ragioni previdenziali: senza di loro possiamo dire addio alle future pensioni degli italiani e più in generale degli europei. È questo un tema molto delicato che pone profondi interrogativi.

In una società in cui si indeboliscono sempre di più i legami familiari, fino a quando i giovani saranno disposti a faticare e a farsi carico di anziani che ritengono privilegiati per aver avuto e avere molto di più di loro? Questo conflitto generazionale, già evidente, non si aggraverà ulteriormente se aggiungiamo i giovani immigrati che ancor più dei giovani nostrani non sentiranno di dovere alcunché a gente anziana con cui non hanno legami, lontana da loro e giudicata egoista e non rispettabile per non aver assolto al compito da loro ritenuto vitale di mettere al mondo figli? E che accadrà quando i nuovi venuti saranno maggioritari nella popolazione giovanile?

È ingenuo affrontare il problema previdenziale solo in una logica contabile senza tenere conto di una realtà fatta di legami, di sentimenti, di interessi e di rapporti di forza.

Così come sarebbe parziale e sbagliato focalizzarsi solo sulle esigenze dei migranti che arrivano senza risolvere di pari passo le questioni sociali interne (occupazione, pensioni da non peggiorare come requisiti e da migliorare come importi, alloggi ecc.). Altrimenti è prevedibile, come già indicato da tanti episodi di cronaca, che venga alimentata sempre più la guerra tra poveri: nostri giovani, disoccupati, famiglie impoverite, e dall’altra gli immigrati visti come usurpatori e più tutelati. Mentre tutto va gestito con il massimo spirito di solidarietà e fraternità.

  1. I migranti e i Paesi d’origine

 C’è un aspetto del fenomeno migratorio che nel dibattito italiano non viene mai preso in considerazioni, ma che è grande importanza: quale impatto hanno i fenomeni migratori sui Paesi di origine dei migranti?

C’è chi lo ritiene positivo, perché esso funge da valvola di sfogo rispetto alla pressione che deriva dalla competizione per le poche opportunità economiche offerte nei Paesi di origine; inoltre le rimesse degli immigrati danno un valido aiuto ai molti parenti rimasti a casa e contribuiscono quindi allo sviluppo del Paese. Ma per fare un bilancio corretto non si può ignorare la perdita di risorse umane connessa al fenomeno. Khalid Koser (Le migrazioni internazionali, il Mulino) ci fornisce in materia numeri dirompenti, anche se riferiti ad alcuni anni fa. L’emigrazione dai Paesi dell’Africa anglofona (da lui studiata) ha coinvolto, verso il Regno Unito, Canada e USA, gran parte dei medici e del personale infermieristico formatosi dopo l’indipendenza nazionale. Lo stesso discorso vale per gli insegnanti, di cui si registra la fuga all’estero. Ci sono poi quanti, con titoli di studio e qualifiche lavorative importanti per il Paese di origine, vanno nel Nord del pianeta a svolgere lavori umili che mai avrebbero fatto a casa loro: laureati e diplomati sono impiegati come muratori, camerieri o badanti. Anche quando i migranti non hanno particolari qualifiche, essi sono sempre soggetti più dinamici della media della popolazione del proprio Paese, e hanno a disposizione qualche risparmio da utilizzare per l’espatrio.

Si aggiunga che, in specie in Africa, la classe politica locale, corrotta e dispotica, favorisce la partenza di chi, per dinamismo e capacità, potrebbe costituire un’alternativa al suo potere o semplicemente essere un fattore di destabilizzazione degli assetti attuali. Questo è l’aspetto di maggior rilevanza. È indispensabile che la qualità del ceto dirigente dei Paesi africani, oggi purtroppo assai scadente, cambi e migliori, ma ciò non avverrà mai se continua l’esodo dei più capaci.

Con la lucidità di pensiero che lo contraddistingue, Benedetto XVI ha scritto che gli odierni fenomeni migratori sono causa di sofferenza per quanti ne sono implicati e pongono difficili problemi sia nei Paesi di origine dei migranti sia in quelli di approdo. Per l’anziano Pontefice, è doveroso soccorrere e accogliere quanti sono in difficoltà, tuttavia la strategia principale per affrontare il fenomeno consiste nel migliorare la situazione e le condizioni di vita delle persone nel loro Paese di origine affinché non siano costrette a emigrare.

III. Le cause delle migrazioni

 Quindi per raggiungere questo obiettivo primario, bisogna innanzitutto prendere in considerazione le cause che determinano i processi migratori: le guerre, le modificazioni climatiche e il divario di reddito con il nord del pianeta.

IIIa) Ci sono le guerre alimentate da interessi estranei ai Paesi coinvolti, quelle direttamente portate da potenze esterne (principalmente Paesi occidentali con il pretesto di esportare la democrazia) a sostegno di disegni egemonici o di obiettivi economici; ci sono, in specie in Africa, i conflitti tribali che caratterizzano la lotta per il potere e c’è il terrorismo principalmente di natura islamica. Coloro che per salvarsi fuggono dai luoghi interessati da tali eventi sono la più parte di quanti sono classificati come “profughi”.

I conflitti nel Sud del mondo non sono un fenomeno recentemente fattosi più rilevante o esplosivo (come si sente sovente dire) perché è dagli anni Sessanta che si succedono quasi senza interruzione con gran numero di vittime (come, ad esempio, nel Biafra, nel Katanga, nel Mozambico, nel Ruanda, nel Burundi). Un tempo non si sentiva parlare di profughi perché le persone coinvolte non avevano i mezzi per fuggire, mentre oggi ci sono fasce sociali che hanno migliorato la loro condizione economica e che pertanto possono intraprende una tale via verso l’Occidente.

Premesso che nessuno intende chiudere la porta a quelli che sono profughi veri, va rilevato che la prima e più risolutiva risposta al problema è nella denuncia di ogni nuovo intervento militare nei Paesi poveri e nella negazione di ogni sostegno a chi lo intraprendesse, anche se fosse il “grande storico alleato”.

IIIb) Le modificazioni climatiche cominciano a produrre i primi “rifugiati”. È tuttavia in un prossimo futuro che il fenomeno avrà conseguenze rilevanti sugli spostamenti di popolazioni.

Qui bisogna essere chiari.

In primo luogo, dove un territorio diventerà inabitabile (per desertificazione o per sommersione causata da aumento del livello del mare), la risposta non potrà consistere nelle fughe individuali, ma occorreranno, sotto guida internazionale, trasferimenti di intere popolazioni o comunità in territori idonei a un loro stabile insediamento.

Secondo. Non si tratta di un problema che riguarda il solo Sud del mondo, per quanto sia meno attrezzato ad affrontarlo. L’impatto delle modificazioni climatiche riguarderà (e già sta riguardando) a macchia di leopardo territori collocati in ogni continente, Europa compresa.

Infatti la scomparsa dei ghiacciai alpini, la siccità che coinvolgerà la fascia meridionale del nostro continente e il concentrarsi delle precipitazioni in brevi periodi avranno pesanti ripercussioni sulle attività agricole e non solo. Inoltre, se l’aumento di temperatura (come è altamente probabile vista l’inerzia attuale nel contrastarlo) supererà largamente i 3 gradi C, il progressivo aumento del livello del mare farà sentire i suoi effetti principalmente in Europa, il continente con la più bassa altitudine media, con il maggiore sviluppo costiero in rapporto alla superficie e con la maggiore percentuale di popolazione residente in vicinanza del mare. È pertanto difficile che gli europei possano farsi carico di altri “rifugiati ambientali” in quanto dovranno provvedere ai propri.

Rimuovere le cause del riscaldamento è pertanto urgentissimo: la transizione ecologica diventa quindi l’obiettivo primario rispetto a quelli posti dalle molte altre situazioni critiche poiché ne condiziona le possibili risposte.

IIIc) Oggi, la causa prima delle migrazioni è ritenuta essere quella di ordine economico riguardante l’enorme divario di reddito fra Nord e Sud del pianeta.

La maggior parte dei migranti lo è per ragioni economiche, e quindi si fa distinzione tra profughi o rifugiati (prevalentemente a causa di guerre) e migranti economici.

C’è tuttavia chi nega questa distinzione dicendo che chi muore di fame non è diverso da un rifugiato. Ma le cose stanno così? Qui c’è necessità di chiarezza.

Quando si dice che tutti i migrati sono poveri bisogna intenderci sul termine “povero”. Certamente la stragrande maggioranza degli africani e degli asiatici è povera rispetto agli standard occidentali. Se facessimo nostra questa considerazione per giustificare il diritto a immigrare, allora questo riguarderebbe non milioni ma miliardi di persone.

Scendendo con i piedi per terra, il concetto di “povero” lo dobbiamo ricondurre all’interno dei Paesi di provenienza. La domanda in tal caso è: dove mediamente si colloca il reddito del migrante rispetto alla media del Paese di origine? Uguale, inferiore o superiore?

Per quanto riguarda l’Africa, difficilmente coloro che guadagnano meno di 1-2 dollari al giorno (capifamiglia che con tale somma devono provvedere a 6-7 persone tra moglie e figli) sono capaci di affrontare il percorso migratorio. E ancor meno coloro che sono al limite della sopravvivenza, quelle fasce di popolazione di cui fanno parte gli 8-10.000 bambini che muoiono ogni giorno di stenti e dei quali i media non amano parlare. Al contrario sono in grado di intraprendere il cammino verso l’Europa quanti hanno la possibilità di mettere da parte la somma necessaria a tal fine, quanti hanno già parenti o amici espatriati e quanti sono più intraprendenti e più istruiti rispetto alla maggioranza dei compatrioti. Essi lasciano il proprio Paese perché sperano di avere in Europa più opportunità e condizioni di vita migliori.

Si obietta che chi rischia la vita nel deserto e in mare per giungere in Europa lo fa per ragioni di sopravvivenza. Probabilmente, molti alla partenza sottovalutano i pericoli del viaggio. Inoltre, un minimo rischio di morte viene preso in considerazione e accettato da chi aspira a un futuro migliore. I “balzeros”, che fuggivano da Cuba verso gli Stati Uniti su zattere o piccoli canotti, rischiavano molto di più ma nessuno può sostenere (qualunque giudizio venga dato su Cuba) che nell’isola corressero pericolo di morire di fame, visto che Cuba ha la più elevata speranza di vita fra i Paesi latino-americani e la minore mortalità infantile. Lo stesso si può dire di chi, con rischi altissimi, saltava il muro per fuggire dalla Germana Est, uno Stato dai molti aspetti negativi ma dove non si moriva di inedia.

Ora bisogna chiedersi se sia dei migranti economici che occorre in primo luogo farsi carico oppure se non sia meglio – anche sul piano etico – occuparsi, oltre che dei rifugiati veri, di chi rimane nel proprio Paese, più povero e più in difficoltà.

Oggi, più di un terzo degli scarsi stanziamenti italiani per interventi nei Paesi poveri viene trattenuto in Italia per l’accoglienza degli immigrati. È giusto, anche tenendo conto che un euro speso in Africa ha efficacia cento volte superiore a uno speso qui?

  1. “Aiutarli a casa loro”. Come?

Come ridurre il differenziale di reddito che muove i migranti economici? Certamente a raggiungere lo scopo, non saranno i modesti “aiuti” che i Paesi sviluppati destinano ai Paesi poveri, utili al massimo a far fronte a situazioni di emergenza umanitaria. Anche le encomiabili iniziative delle varie ONG e delle missioni, che pur hanno un ruolo significativo, non sono risolutive. Viene pertanto ripetuto (Banca mondiale, Fondo monetario, ecc.) che un tale obiettivo può essere raggiunto solo con l’inserimento dei Paesi arretrati nel mercato globale e con gli investimenti del mondo economico e finanziario internazionale volti a creare in questi Paesi imprese e attività produttive, principalmente indirizzate all’esportazione. In particolare, si affida tale compito a un’agricoltura imperniata su grandi aziende e tecniche avanzate che superino l’attuale agricoltura di sussistenza fondata sull’autoconsumo e sulle terre comuni.

In pratica si pretende di estendere a tali Paesi il modello di sviluppo e di consumi che caratterizza l’Occidente. È una strada percorribile?

In primo luogo, va sempre ricordato che – come ha scritto tra gli altri Luciano Gallino – un tale modello di consumi non può essere esteso a tutti gli abitanti del pianeta perché occorrerebbero le risorse di più Terre. Sono inoltre standard di vita e consumi che neppure i Paesi sviluppati possono permettersi ancora a lungo perché il loro livello di vita dipende in notevole misura dalle risorse prese nel Sud del mondo. Pertanto, non ha alcun senso indicare un tale cammino come unica strada percorribile.

Oggi, come già detto, la lotta contro le modificazioni climatiche diventa prioritaria rispetto alle molte altre situazioni critiche perché ne condiziona le misure da intraprendere. A tal fine, occorre procedere sulla strada di una nuova economia, come scrive il gesuita Gael Giraud (su “La voce e il tempo” del 21/5/2017), dettata dalla necessita della transizione ecologica, una transizione caratterizzata dalla sostituzione dell’energia fossile con quella rinnovabile, dalle cosiddette 3R (ridurre il consumo delle risorse, riutilizzare i prodotti, riciclare i rifiuti) e da stili di vita molto sobri. Questo radicale cambiamento dei modi di produzione e di consumo dei cosiddetti Paesi evoluti, oltre a metterli in equilibrio con i propri territori in termini di prelievo di risorse e smaltimento delle scorie prodotte, avrebbe ricadute altamente positive sul Sud del mondo: cesserebbe il prelievo (o la rapina) delle sue risorse; si porrebbe fine all’esportazione di guerre dettate da interessi egemonici ed economici (il controllo delle predette risorse); verrebbe meno la forte attrazione che il modello di vita consumistico occidentale esercita sulle popolazioni dei Paesi poveri e che, in parte, è responsabile del fenomeno migratorio. Su tutta questa ampia tematica la Laudato si’ di papa Francesco rimane un riferimento fondamentale e ineludibile.

Il Sud del mondo (e l’Africa in particolare) deve trovare una sua strada di sviluppo coerente con la propria cultura e le proprie risorse, a partire da quelle umane. Poiché la nuova economia dettata dalla transizione ecologica sarà un’economia collaborativa, imperniata sui beni comuni e sulla condivisione, allora dove (come in Africa) è ancora forte il sentimento comunitario, sarà più facile intraprendere questo cammino. Questa strada, che non esclude aiuti e consulenze tecnico-scientiche da parte dei Paesi sviluppati, appare la più concreta e praticabile anche se viene ritenuta utopica dall’attuale establishment planetario.

E la crescente acquisizione di vastissimi territori africani da parte di società cinesi potrebbe rappresentare un forte impedimento alla creazione di un’autonoma economia africana, a causa della sottrazione della materia prima necessaria, i  terreni agricoli comuni.

A questa realtà va poi sempre aggiunta la questione che non può essere ignorata interrogandosi su come l’Africa potrà uscire dalla attuale condizione di miseria. Si tratta della insostenibile crescita demografica. Per comprendere di che cosa si tratta, basti l’esempio della Nigeria. Nel 1960, anno dell’indipendenza, questo Stato aveva 39 milioni di abitanti; oggi sono prossimi ai 200 milioni, con una densità demografica di circa 200 persone per kmq. E la popolazione aumenta annualmente di circa 5 milioni. Con questo ritmo di aumento, nel 2050, la Nigeria avrà più abitanti dell’intera Europa; così come capiterà in Etiopia, altro Paese dalla forte crescita demografica.

Non c’è strategia economica che possa reggere ad un tale impatto numerico. E la valvola di sfogo dell’emigrazione non può essere la soluzione del problema.

  1. Le strategie europee

Siamo tutti convinti che la Comunità europea (la Commissione e il Parlamento) affronti il problema dei migranti con misure adeguate?

Va) Al momento la principale proposta è quella di distribuire i migranti fra i Paesi comunitari. Potrebbe essere una soluzione temporanea in attesa di risolvere il problema alla radice, dato che non si potrà infatti continuare all’infinito a ricollocare un crescente numero di persone. Tuttavia ci sono Paesi – in particolare nell’Est europeo, ma non solo – attualmente non disponibili all’accoglienza sicché il peso ricade sui Paesi di primo approdo, in particolare Italia e Grecia.

È giusto esigere la condivisione degli oneri; c’è tuttavia un fatto di cui non si vuol tenere conto. Chi fugge da morte probabile si accontenta di un qualunque luogo ove trovi un tetto sicuro, del pane o un piatto di riso. Ma chi cerca nuove opportunità (e si tratta della grande maggioranza dei migranti) non intende rimanere nei Paesi europei con basso reddito, come sono i Paesi dell’Est e del Sud Europa; vuole andare dove i redditi sono elevati: in Svezia, Olanda, Germania, Regno Unito. La ripartizione quindi non può funzionare perché sono gli immigrati economici a rifiutarla fuggendo subito dal Paese europeo sgradito. Allora che senso ha continuare a dire che la ripartizione fra Paesi europei degli immigrati è la principale soluzione del problema?

Vb) Altra proposta prevede di definire flussi controllati e programmati, ma bisogna essere chiari sulla finalità.. Se l’obiettivo è alleggerire la pressione dei migranti che premono alle porte dell’Europa, c’è da dubitare che raggiunga lo scopo: infatti, chi non fosse compreso nel flusso controllato tenterebbe comunque di raggiungere il nostro continente. Di conseguenza, se non si possono, o non si vogliono, creare barriere (fisiche o giuridiche), non c’é modo di fermare il flusso. Quanti dicono che non ci sono argini possibili allora devono aggiungere che non può esistere alcuna gestione del fenomeno migratorio. Infatti, una razionale gestione comporta, accanto alla definizione di quote sulla base della capacità di accoglienza, i respingimenti e le espulsioni di chi non ha titolo di ingresso.

È evidente che manca una strategia di lungo periodo su come affrontare la situazione. Si può ogni giorno chiedere alla gente di farsi carico dell’accoglienza di sempre nuovi migranti senza indicare un termine all’impegno, senza offrire una prospettiva, una soluzione? È come pretendere che si svuoti il mare con un secchiello. Occorre fin da oggi mettere in campo un progetto che vada alla radice del problema e definire un tracciato del necessario percorso (che certamente richiede tempo), perché a creare inquietudine e paura nella gente è proprio la mancanza di una strategia e di un traguardo all’orizzonte.

E anche se tutti gli osservatori concordano sul fatto che non esiste diretta correlazione tra i flussi di migranti e le cellule terroristiche che hanno insanguinato l’Europa, non si può sottovalutare il senso di paura e diffidenza verso gli stranieri di fede islamica che sta montando in larga parte della popolazione europea, su cui fanno leva forze politiche di destra per aumentare i propri consensi.

Per affrontare un fenomeno epocale come quello dei migranti servirebbe una vera, politica, forte Unione Europea. Se fossimo un unico Stato, non ci sarebbero più coste italiane, ma coste europee; non ci sarebbe più (solo) un Governo Italiano ad occuparsene, ma il Governo dell’Europa. La realtà è che l’Europa è divisa, e quindi più debole.

  1. Accoglienza e rimpatri

Un fenomeno di portata epocale viene fronteggiato in modo diviso e inadeguato dai leader europei, preoccupati solo di arginare il problema per non pregiudicare il consenso alle prossime elezioni nazionali. Ci vorrebbe una forte idea di Europa, ma gli Stati che sono nelle retrovie trovano al momento più comodo alzare il ponte levatoio limitandosi a manifestare una sterile solidarietà di facciata ai Paesi in prima linea, in primis l’Italia. La nostra penisola si protende nel Mediterraneo, e non abbiamo ponti levatoi da alzare. Volenti o nolenti siamo terra di approdo per chi attraversa il mare. A meno che non si vogliano affondare i barconi a cannonate.

Per fortuna i naturali valori umanitari hanno sinora prevalso, pur tra incertezze e ipocrisie. Vedi la polemica sulle ONG che avrebbero contatti diretti con i trafficanti di uomini per intercettare i barconi alla loro partenza. Come se la mission di una ONG non fosse quella di salvare vite umane: anche senza aspettare che un barcone arrivi in alto mare o, addirittura, sia appena naufragato.

Il problema migranti va affrontato senza ipocrisie. Cercando di governarlo, malgrado l’immane fatica del compito. Tra un fenomeno incontrollato, abbandonato alle sue dinamiche, e uno affrontato pur tra mille difficoltà, meglio il secondo.

Pensiamo poi a come rendere l’immigrazione un’opportunità, non solo un problema.

L’Italia è un Paese sempre più anziano, e l’inserimento controllato di giovani immigrati non potrà che portare benefici sociali ed economici, come ricorda il presidente INPS Tito Boeri ricordando l’apporto attuale di 8 miliardi annui di contributi alle casse dell’Ente previdenziale. Specialmente nelle aree montane e collinari, l’arrivo di immigrati abituati a un’economia di sussistenza porterebbe nuovo impulso – come già sta avvenendo in diverse vallate piemontesi – ad aree a concreto rischio di spopolamento.

Milena Gabanelli, in uno degli ultimi servizi di “Report” da lei realizzati, ha prospettato una forte iniziativa dell’Italia per diventare uno strutturato e specializzato luogo di ingresso, selezione e formazione dei migranti. Oggi il nostro Paese è esposto di fatto allo tsunami migratorio, ma in emergenza, senza una strategia-Paese. Con i soldi dell’Europa – ogni anno sono 6 i miliardi di euro concessi senza fiatare alla Turchia perché interrompesse la rotta balcanica e concentrasse in campi profughi ai suoi confini centinaia di migliaia di migranti – l’Italia potrebbe gestire per conto dell’intera Unione Europea la prima accoglienza e l’identificazione – meglio in basi su suolo libico –, il trasporto sicuro in basi italiane distribuite sul territorio nazionale (ad esempio in ex caserme riadattate), l’osservazione sanitaria, la formazione di base, linguistica culturale e professionale, propedeutica all’inserimento presso uno dei Paesi UE.

Quante migliaia di giovani italiani troverebbero lavoro come insegnanti, mediatori culturali, educatori, medici, infermieri, cuochi, poliziotti ecc. in un progetto di così ampio respiro? Non sarebbe un impulso all’edilizia (per le ristrutturazioni) e all’economia delle località interessate?

E l’Italia non sarebbe protagonista dei rapporti con la Libia – tutelando al meglio i suoi interessi economici –, capace di svolgere quel naturale ruolo di ponte verso l’Africa che già Luigi Sturzo attribuiva al nostro Paese?

E non si combatterebbe meglio la tratta di giovani donne, di minori, di disperati destinati allo sfruttamento per impinguare l’economia criminale in Africa, in Italia, in Europa?

Se concordiamo nel distinguere tra profughi (che fuggono dai luoghi in cui si combatte, o da persecuzioni per ragioni etniche o di fede), e migranti mossi da ragioni economiche, dobbiamo porci la questione di come e in che tempi selezionare chi ha titolo di essere accolto, talora temporaneamente, (i rifugiati) e chi no (i migranti irregolari o economici). Attualmente in Italia occorrono mediamente anni a tal fine. È inaccettabile in quanto di fatto vanifica la selezione.

Se i tempi lunghi sono connessi alle modalità di selezione dettate da logiche giuridiche superate dai fatti e dall’intervento di una magistratura sempre lenta nell’agire, siamo d’accordo a modificare radicalmente il sistema adottando i criteri di quei Paesi europei che risolvono in breve la questione?

Ed infine, riteniamo giusto che sia rimpatriato chi non ha titolo di rimanere? Ciò è praticabile solo con i Paesi con cui ci sono già accordi, mentre con gli altri Stati di origine dei migranti irregolari questa soluzione diventerà possibile solo se l’Italia e i Paesi europei metteranno in atto pressioni politiche ed economiche per indurli a sottoscrivere un accordo. C’è già chi rifiuta questa strategia ritenendola ricattatoria, ma senza di essa molti rimpatri sarebbero difficoltosi. Così emerge un atteggiamento diffuso: si riconosce la necessità dei rimpatri ma non si accettano i modi con cui realizzarli. Sarebbe bene essere chiari in materia.

In tema, il ministro Minniti ha cercato di imprimere una svolta nella gestione della politica migratoria, con qualche primo risultato nella diminuzione del flusso migratorio.

Ma una possibile, significativa svolta, dovrebbe scaturire dalle decisioni prese nel vertice europeo dello scorso 28 agosto a Parigi. I principali governi europei hanno convenuto sulla proposta italiana di una intesa con i centri di potere in Libia e con i governi di alcuni Paesi sub sahariani per spostare di fatto il confine dell’immigrazione dalla costa libica a sud del deserto.

Tale strategia è comprensibile vista con la ragion di Stato, perché allontanando il problema lo si rende meno pressante sulle pubbliche opinioni degli Stati europei. Un po’ come è già stato fatto fermando ai confini meridionali della Turchia le masse di profughi che per mesi hanno alimentato la cosiddetta “rotta balcanica”. L’analogo tentativo di bloccare i flussi in Mali, Niger e Ciad costerà miliardi di euro all’Europa, in aggiunta a quelli destinati alla Turchia: non si sa però con quali garanzie sulle condizioni di vita delle moltitudini di persone ammassate nei campi profughi che verranno allestiti in quei territori. Sul piano umanitario potrebbe comunque essere un bene che a decine di migliaia di persone venga impedita, dopo la traversata del Mediterraneo, anche l’altrettanto pericolosa traversata del deserto, stroncando in partenza i traffici dei “nuovi negrieri”. Ma certamente sarà necessaria una concomitante forte iniziativa politica ed economica mirata a ridurre le quattro principali cause delle migrazioni – guerre, mutamenti climatici, povertà, boom demografico – per evitare che il problema si sposti solo un po’ più lontano, ma continui a ribollire sino a riesplodere tra qualche tempo con maggiore virulenza, anche utilizzando nuove rotte per raggiungere l’Europa.

Considerazioni conclusive

“Le migrazioni non sono un problema perché si verificano da sempre”; oppure “le migrazioni sono un fattore positivo perché, portando a contatto culture diverse, sono sempre state un fattore di progresso” sono affermazioni udite più volte. Esse non servono a mettere nell’angolo chi guarda al fenomeno con preoccupazione ma piuttosto banalizzano situazioni molto complesse e difficili da affrontare, e spingono la gente ad assumere posizioni di chiusura.

Di ogni medaglia non basta guardare una faccia sola, ma anche il retro, la faccia in ombra.

Le migrazioni si sono verificate fin dal lontano tempo in cui l’Homo sapiens ha lasciato l’Africa per occupare tutte le terre del globo; tuttavia, ove è giunto, sono scomparsi gli ominidi che l’avevano preceduto, ultimo il nostro fratello-cugino neandhertaliano, perché il nuovo venuto ha sottratto loro spazio, risorse, quando non li ha sterminati con le malattie portate e con la violenza.

Una storia che con poche varianti si è ripetuta più volte nei secoli (vedi Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond). Soffermiamoci solo sulle migrazioni europee nel continente americano, in larga parte del quale hanno provocato l’estinzione della numerosa popolazione autoctona. E si badi che, a differenza di quanto sovente si afferma, di ciò non sono stati responsabili i conquistadores – i vari Cortez, Pizzarro o Almagro, che pur hanno compiuto inaudite violenze – perché ancor oggi nelle terre da loro conquistate (America centrale e Paesi andini), la popolazione è formata in larga misura dai discendenti degli autoctoni e vi si parlano ancora le antiche lingue native (nahuatl, mixteco, quechua, aymarà, guaranì). Non è così in Nord America, Argentina, Uruguay e Brasile meridionale, nelle terre che si prestavano all’insediamento delle varie ondate di migranti e coloni europei. Qui si è presentata la storia di sempre: malattie importate dai nuovi venuti, sottrazione di terre e di risorse vitali per i nativi, stermini diretti hanno cancellato le popolazioni autoctone. E la stessa cosa è avvenuta nell’Oceania.

Sono questi capitoli della storia che vengono accuratamente messi in disparte poiché mal si conciliano con la descrizione ufficiale del luminoso cammino del progresso e dei valori occidentali.

Certo, non sempre le cose sono andate così. È vero che l’Europa nasce, con la fine dell’era antica, dall’incontro delle popolazioni “barbariche” (Germani in primis) e il mondo latino, il tutto fecondato dal cristianesimo. Ed è curioso notare che lo stesso fenomeno storico, nello stesso continente, a distanza di oltre un millennio e mezzo mantiene comunque ancor oggi nella lingua – che è lo specchio della cultura – due visioni differenti: quelle che noi chiamiamo “invasioni barbariche”, in tedesco vengono definite Völkerwanderung, “migrazioni di popoli”.

Comunque le si voglia considerare, anche se noi siamo gli eredi di questo “incontro”, sarebbe superficiale dimenticare o nascondere gli eccidi, le violenze, il dolore e la sofferenza che per lungo tempo (dalla fine del II e tutto il V secolo d.C.) lo hanno contrassegnato.

Le cose possono oggi andare altrimenti? Lo speriamo tutti, ma non considerare i rischi e le ricadute negative che sempre accompagnano i grandi cambiamenti è irresponsabile. Rischi e ricadute negative che aumentano con la dimensione e l’accelerazione dei fenomeni in corso. Recita un proverbio cinese, ritenuto una massima di Confucio: “Sfortunato colui che vive in tempi interessanti”. E i tempi “interessanti” sono appunto quelli di grandi cambiamenti e di profonde trasformazioni, che sempre comportano emergenti e soccombenti, vincenti (pochi) e perdenti (molti).

Questo significa che bisogna fermare i cambiamenti, che talora sono fattori di progresso?

No, perché, tra l’altro sarebbe impossibile. Significa invece che occorre governare, nell’interesse generale, ogni cambiamento, imponendo ad esso ritmo e dimensione, e porre particolare attenzione a quanti ne sono le potenziali vittime.

C’è sempre qualcuno che, in nome di qualche prossimo paradiso in terra, è pronto a sacrificare il presente e quanti in esso vivono.

Ma ricordiamo che nella storia – che non ha fine, a differenza di quanto si diceva negli anni Novanta – non siamo mai in presenza di una corsa che ha in vista un traguardo definitivo, ma solo traguardi di tappa ai quali seguono sempre interminabili nuovi percorsi.

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