Che cosa è più importante per la pace nel mondo: la globalizzazione della democrazia politica o la globalizzazione economica? Il dilemma così formulato sembra insensato. Perché mai si dovrebbe essere costretti ad una scelta?
Dove passano le merci, là si intrecciano relazioni pacifiche tra gli esseri umani. Dove c’è globalizzazione economica, lì si afferma anche quella della democrazia. Così, in effetti, sembrava, all’ingrosso. E quando Samuel Huntington, oggi tornato di moda – ne fa il suo pilastro d’appoggio persino Alexander Dugin, il Rasputin filosofico di Putin – scrisse nel 1993 su Foreign Affairs un articolo poi trasformato nel libro “The Clash of Civilizations”, si organizzarono molti seminari, ma raccolse pochi consensi. Era nato quale risposta al libro famoso di un suo allievo, Francis Fukuyama, “The End of History and the Last Man”, stampato un anno prima. Quest’ultimo profetizzava un’espansione planetaria della democrazia, sulle ali della globalizzazione economica.
Intanto, nel bel mezzo di questo dibattito accademico, erano scoppiate le guerre jugoslave nel 1991. Dureranno fino al 2001. Ma, alla luce della teoria di F. Fukuyama, venivano interpretate come scosse di assestamento del post-comunismo. Per Huntington, invece, aprivano la strada ad un XXI secolo caratterizzato dallo scontro tra le civilizzazioni, definite queste sia da elementi obbiettivi di linguaggio, storia, religione, costumi, istituzioni sia da elementi soggettivi di autoidentificazione. Elencava otto civilizzazioni: occidentale, confuciana, giapponese, islamica, indù, slavo-ortodossa, latino-americana, africana. La previsione finale era poco tranquillizzante: “Gli scontri tra civiltà rimpiazzano ormai i confini ideologici e politici della guerra fredda quali punti cruciali di crisi e eccidi”. Insomma, dalle guerre ideologiche del ‘900 a quelle future “di civiltà”.
Intanto la globalizzazione economica stava esplodendo, con l’aiuto della Rete. E così fummo portati a pensare che, nonostante fossero ben visibili e crescenti le contraddizioni sociali ed economiche generate dalla globalizzazione, essa avrebbe migliorato le condizioni dell’umanità e avrebbe perciò abbassato le tensioni e i conflitti tra Stati a regime democratico o autocratico. La Cina stava trattando per entrare nel WTO; entrerà l’11 dicembre 2001, mentre la Russia lo farà solo il 16 dicembre 2011. L’arrivo della Cina portò con sé oltre la soglia della povertà estrema 800 milioni di esseri umani, la maggioranza dei quali era, appunto, cinese. E’ stato un miglioramento clamoroso.
Ora, però, la guerra ucraina ha squarciato il velo dell’identificazione tra globalizzazione dei mercati e universalizzazione della democrazia. La filosofia ingenuamente materialistica e pseudo-realistica, di origine marxista e liberale, che assegna il primato delle motivazioni umane all’interesse economico nelle relazioni tra individui e tra Stati, si è trovata falsificata all’improvviso dal riemergere potente delle motivazioni legate alle culture, alle tradizioni, alla politica, alle tavole di valori.
Davvero Putin aggredisce l’Ucraina solo per il gas? La Cina comunista-confuciana sta cercando di diventare la prima potenza militare mondiale solo per garantire il libero transito dei commerci nell’Indo-pacifico? E così le potenze democratiche e gli Stati europei, abituati a traguardare il mondo alle luci sfavillanti di Wall Street e di altre Borse mondiali, si trovano a dover fare i conti con il fatto che la propria tavola dei valori – la società aperta – è messa sotto attacco economico, politico e, finora indirettamente, militare.
Quale nuova struttura del mondo si intravede? Si profila una divisione del mondo in due nuovi campi, che stanno prendendo autocoscienza a partire dall’aggressione russa all’Ucraina: un Asse delle Autocrazie contro un’Alleanza delle Democrazie.
Qualcosa di simile accadde negli anni ’30, quando le forze totalitarie si coagularono nell’Asse, costringendo le riluttanti democrazie ad un’Alleanza di guerra. Del nuovo Asse ideologico sono nucleo duro, per ora, la Russia e la Cina. Attorno tendono a cercarsi un’orbita la Corea del Nord, il Pakistan, il Sudafrica, il Brasile di Bolsonaro… Dove si ricollocherà l’India, dove la Turchia, dove l’Iran, dove la Nigeria è tutto da vedere, giacché le ragioni dei conflitti regionali possono disturbare il tendenziale allineamento politico-ideologico al nuovo Asse e innescare contro-allineamenti.
Così, l’India è schierata con la Russia oggi, ma da questo non consegue che potrebbe stare domani dentro un blocco che veda la presenza della Cina e del Pakistan, storicamente rivali. Osservazioni analoghe si possono fare per l’intero Medioriente, dove Turchia, Iran e Arabia saudita si disputano l’egemonia. Si tratta, per ora, solo di disegni ideologici e geopolitici, peraltro ampiamente dichiarati da Putin – confermati da Lavrov nei giorni scorsi a Pechino – e da Xi Jin Pin. L’idea di fondo è quella del “Grande Risveglio” autocratico contro il “Grande Reset” democratico-occidentale, parola di A. Dugin.
Gli occidentali liberali – relativisti, scettici, pacifisti per interessi e per quieto vivere – fanno fatica ad accettare questo livello della sfida. Non dispongono delle categorie per interpretarla. Per loro la libertà e le libertà sono un dato naturale e irreversibile.
Un passo indietro della Storia, dunque? Lo si può pensare, se si assume come criterio di giudizio l’idea hegeliana che la Storia sia un fatale processo di compimento dell’Assoluto, nel quale processo il Male e il Negativo siano, infine, ridotti a scarti residuali. Ma se la Storia è un dramma, se è un conflitto permanente di Bene e Male – quali che ne siano le incarnazioni contingenti – nel quale ogni individuo e ogni generazione sono chiamati a schierarsi, allora è qui che ciascuno deve collocarsi, nella storia presente. La Storia non gode di una direzione prefissata dalla Ragione. La Storia “ac/cade”. Dipende dalla libertà e dalla responsabilità di chi la vive al momento dove “cade”.
Ne consegue che un’Alleanza delle potenze democratiche – Usa, Gran Bretagna, Nazioni europee, Israele, Nazioni latino-americane, Giappone, Australia, Corea del Sud, Taiwan… – è la necessità del momento, per difendere le società aperte, fondate sulle libertà e sui diritti delle persone e degli Stati.
La piattaforma è sempre la Carta delle Nazioni Unite, firmata da 51 Nazioni a San Francisco il 26 giugno 1945, e la Dichiarazione dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948: rispetto della sovranità degli Stati e rispetto dei diritti umani.
Che fare dell’ONU di oggi, visto che è ormai paralizzata? Nel suo Consiglio di sicurezza siedono 15 membri, di cui 5 permanenti: Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti. Di questi tre sono democrazie, due sono autocrazie, bloccate dai veti reciproci. Occorre ripensare istituzioni internazionali capaci di stare all’altezza delle sfide della specie umana. E’ ormai il compito del presente.
Giovanni Cominelli