Nell’articolo sul debito pubblico, pubblicato ieri ( CLICCA QUI ), si poneva la domanda se fosse possibile realizzare una politica fiscale senza far aumentare il debito pubblico. Si può e si possono seguire diverse vie.

Una via è data dal fare diretto riferimento al rapporto Debito pubblico / PIL (che non ha significato effettivo di per sé, ma che comunque viene diffusamente preso in considerazione). Precisamente che si continui ad aumentare il debito pubblico in conseguenza di un deficit di bilancio pubblico che aumenta e che, attivando un moltiplicatore della domanda aggregata che fa aumentare il PIL di due volte l’aumento del deficit pubblico, fa ridurre il rapporto Debito pubblico / PIL – ad esempio, 130/100 che diventa 131/102 = 1,28 e non invece che diventi 129/98 = 1,32, che si avrebbe se se si operasse per ridurre debito pubblico e PIL. Ma questo processo di riduzione del debito pubblico sarebbe di dimensioni contenute e comunque lento nel realizzarsi.

Altra via potrebbe essere un’azione politica concertata a livello europeo che veda il deficit e il debito pubblici calcolati al netto delle spese pubbliche d’investimento e quelle, anche correnti, per sanità, istruzione, giustizia, recupero dei patrimoni ambientali e architettonici; tutte spese che concorrono ad allungare il lato dell’offerta aggregata e non solo il lato della domanda aggregata, come fanno le altre spese correnti. Questa via viene a riconoscere che gli obiettivi e i vincoli di natura meramente quantitativi sono inadeguati; essi devono essere espressi anche in termini qualitativi. Ovviamente questo toglierebbe una parte rilevante del freno a una politica fiscale espansiva, ma farebbe aumentare il debito pubblico; la presenza di quest’ultimo aumento non andrebbe però a bloccare la prima.

Analogamente, la presenza del debito pubblico non andrebbe a indebolire la capacità di attivare una politica fiscale espansiva qualora fosse eliminato l’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), che impone il divieto alla BCE e alle singole banche centrali dei singoli paesi membri dell’ «acquisto diretto di titoli del debito degli stati membri e di tutti gli organismi di diritto pubblico o delle imprese pubbliche [esclusi gli enti creditizi] degli stati membri», oltre che di concessioni agli stessi soggetti pubblici di «qualsiasi forma di facilitazione creditizia».

Questo divieto ha eliminato la possibilità che il deficit pubblico possa – come è invece lecito per gli stati al di fuori dell’UE (quindi Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Svizzera, Russia, Cina, Giappone, India, Australia, Brasile ecc.) – essere finanziato ricorrendo alla Banca Centrale del Paese, svolgendo quindi la funzione di prestatore di ultima istanza per lo Stato. È questa la conseguenza dell’approccio “ordoliberistico” che è prevalso nel Trattato di Maastricht, prodromo dell’ordinamento in campo monetario e finanziario dell’UE, basato sul credo che gli stati sono soggetti pericolosi per la stabilità macroeconomica qualora possano contare sull’esistenza di un prestatore di ultima istanza a cui poter ricorrere. In assenza di quest’ultimo, si ha un rilevante vincolo per l’impiego della politica fiscale espansiva; vincolo che è stato però attenuato, per i paesi dell’Area dell’euro, con la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), il quale può accordare linee di credito e prestiti (compresi acquisto di titoli del debito pubblico) agli stati dell’Area dell’euro che abbiano difficoltà di finanziamento, ma non la fa creando nuova base monetaria – come lo farebbe la BCE – bensì attingendo risorse dai mercati finanziari.

Al fine di eliminare la spada di Damocle che pende sulla testa degli stati con forte debito pubblico è stato anche proposto che i titoli del debito pubblico, che la BCE acquista sui mercati secondari, vengano annullati o trasformati in rendita irredimibile con tasso d’interesse minimo, che la BCE  retrocederebbe al singolo Stato, ciò che peraltro già oggi la BCE fa. La spada di Damocle scomparirebbe.

Un’altra via perseguibile ancora sarebbe evinta dallo Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali (SEBC) e della BCE (art. 14, comma 4): «Le banche centrali nazionali possono svolgere funzioni diverse da quelle specificate nel presente Statuto, a meno che il Consiglio Direttivo decida, con la maggioranza dei due terzi dei votanti, che tali unzioni interferiscono con gli obiettivi e i còmpiti del SEBC. Tali funzioni sono svolte sotto la piena responsabilità delle banche centrali nazionali e non sono considerate come facenti parte del SEBC».

Mi domando come la maggioranza dei due terzi del Consiglio Direttivo del SEBC potrebbe – sul piano politico – cassare l’iniziativa della banca centrale di un paese volta a evitare lo strangolamento della sua economia – con evidenti forti ricadute negative occupazionali e sociali – causato da una politica di austerità imposta dalle istituzioni dell’Unione Europea per rispettare supposti obiettivi di stabilità finanziaria che – alla luce di una corretta interpretazione teleologica dell’art. 3 del Trattato dell’UE (TUE) e sempre che si sia in presenza di stabilità dei prezzi – sono secondari rispetto agli obiettivi primari della piena occupazione e del progresso sociale, alla realizzazione dei quali gli stessi SEBC e BCE (ai sensi dell’art. 2 del proprio statuto) hanno il dovere di concorrere!

Ma perché lo Stato di un paese dell’Unione Europea non può emettere, lui stesso, mezzi monetari a sola circolazione interna nel Paese stesso, con cui pagare merci, servizi e uso dei fattori produttivi acquisiti per produrre consumi pubblici o per realizzare investimenti pubblici o per trasferimenti a favore di famiglie e imprese interne e che lo Stato, per primo, accetta in pagamento di imposte, tasse e tariffe di servizi pubblici? Gli stati e le banche centrali diverse dalla BCE non possono emettere banconote a corso legale per tutta l’Eurozona (art. 128 del TFUE), ma nulla vieta l’emissione di biglietti di Stato a sola circolazione interna al singolo paese.

In altre parole, lo Stato crea una “criptomoneta” (la moneta legale rimane l’euro) emessa per finanziare una politica monetaria espansiva, a parità di moneta legale e senza che il deficit di bilancio vada a toccare la massa del debito pubblico redimibile. Criptomonete attualmente sono create solo da soggetti privati e non sono liberamente spendibili, ma hanno un campo d’impiego fissato dal soggetto che le crea e accettato da chi le utilizza. La criptomoneta creata dallo Stato potrebbe avere il vincolo dell’impiego limitato allo scambio di beni (merci e servizi) all’interno del Paese e il divieto dell’accesso ai mercati finanziari.

Sarebbe il modo per realizzare una politica fiscale espansiva senza creare né euro né debito pubblico redimibile e sottraendosi così alla morsa dei mercati finanziari internazionali. D’altra parte, perché ridurre la fattispecie della moneta ai soli debiti bancari (della Banca Centrale e delle banche ordinarie)?

Fattibile? Sì, lo dimostrano diversi casi nella storia. Il più rilevante, in epoca contemporanea, fu il Programma MEFO, creato da Hjalmar Schacht, Ministro dell’economia tedesco dal 1934 al 1937. Chi vendeva beni allo Stato tedesco non riceveva marchi, ma cambiali MEFO, che potevano circolare nell’economia ed essere scontate presso la Reichsbank, venendo a costituire uno strumento monetario  parallelo. In questo modo, la spesa pubblica potè svolgere un’azione espansionistica senza far aumentare la circolazione monetaria legale, bloccata dall’austerità deflattiva del Governo Bruning, dopo la forte inflazione vissuta nel corso della Repubblica di Weimar, figlia delle sanzioni punitive contenute nel Trattato di Versailles del 1919. Il Programma MEFO costituì lo strumento per la rinascita dell’economia tedesca nel primo periodo del Regime nazista; strumento di crescita dell’economia e dell’occupazione ma, ahimè, anche del riarmo dello Stato nazista.

Ovviamente occorre essere molto attenti a non fare della moneta di Stato uno strumento che crei inflazione dei prezzi, come avvenne con gli assignat della Rivoluzione francese e con le monete inconvertibili dei paesi belligeranti nel corso della Prima e della Seconda Guerra Mondiale. Occorre che sia gestito per stimolare la domanda aggregata, evitando però, ovviamente, che essa sia spinta oltre il potenziale produttivo del sistema economico. Lord Keynes riconobbe a Schacht di aver creato un meccanismo che consisteva «nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto fra diverse unità economiche. In tal modo, riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. Tale innovazione funzionò bene, straordinariamente bene».

Meccanismo pericoloso? Non di più dello strangolamento dell’economia da parte di un sistema che non permette a questa di uscire da uno stato di folle austerità, in un momento in cui l’economia soffre i una grande scarsità di domanda di beni prodotti rispetto alle risorse di lavoro e di capitale che ha a disposizione. Purché – vincolo che deve sempre esserci – i beni che vengono prodotti siano di elevata qualità personale e sociale.

È un meccanismo delicato, che occorre gestire molto accuratamente affinché non sfugga di mano. Che sia efficace dipende anche, in modo rilevante, dall’autorevolezza del Governo che lo mette in pratica; autorevolezza sia all’interno del Paese sia, ancor più oggigiorno, a livello europeo e mondiale.

Daniele Ciravegna

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