Che il governo australiano abbia, circa un mese fa, ufficialmente dichiarato di considerare Hezbollah come un’organizzazione terroristica potrebbe sembrare un elemento piuttosto marginale nel presente quadro internazionale. Un quadro molto complesso, fitto di tensioni, anche militari, addirittura tra potenze atomiche, come nel caso della ventilata inclusione dell’Ucraina nella NATO.
In Estremo Oriente, in particolare, questo quadro appare in rapida trasformazione rispetto a quello che ha caratterizzato i quattro decenni a cavallo dei due secoli, in cui gli interessi economici hanno di gran lunga prevalso su quelli politici, e la collaborazione produttiva lungo filiere transnazionali ha prevalso sulle politiche di auto-sufficienza.
La condanna che dagli antipodi viene oggi pronunciata contro questo movimento la cui attività si svolge tra il Libano, la striscia di Gaza e i territori palestinesi occupati de Israele, potrebbe peraltro sembrare anche un déjà vu. Basterebbe, per rendersene conto, attribuire attribuisce il suo significato simbolico, ed il suo giusto peso, al fatto che Canberra, a metà Ottobre, aveva già fatto propria – in maniera solenne, as a People, as a Nation – con un discorso presentato via video dal premier Morrison al Malmö International Forum, la definizione ufficiale del concetto di “antisemitismo” stabilita dalla International Holocaust Remembrance Alliance.
Comunque queste mosse della diplomazia australiana sarebbero state certamente sottovalutate tanto dall’opinione pubblica, così come dai cosiddetti “esperti di geopolitica” più o meno improvvisati ed ignoranti di cui pullula il nostro paese, se alla condanna della dalla “odiosa Ideologia” degli Hezbollah non avesse fatto seguito un interessante commento del Ministro degli Esteri del nuovo governo israeliano, Yair Lapid.
Un’intervista significativa
Prendendo lo spunto dal fatto che le forze dell’ordine australiane hanno ormai la possibilità di dare legalmente la caccia in tutto il mondo al gruppo libanese, questa importante personalità dell’Israele post- Netanyahu ha infatti affermato – in un’intervista con il Sydney Morning Herald – che il suo paese non solo è molto interessato ad un rapporto di sicurezza più stretto con l’Australia, ma che esso vede anche come un’importante priorità la conclusione di un accordo di libero scambio con Canberra. Cioè che Israele non solo vorrebbe collaborare con l’Australia -in quanto paese-pilastro della rete di intelligence Five Eyes nell’Indo-Pacifico, ma che Israele vorrebbe stabilire con esso anche una partnership assai più ampia, comparata addirittura a quella intrattenuta con “il nostro più stretto alleato, gli Stati Uniti”.
Alla luce delle crescenti tensioni tra Cina e Stati Uniti, non è difficile cogliere il significato di tutto ciò. Negli ultimi anni, infatti, ci sono state molte richieste e pressioni per un allargamento al Giappone e ad Israele della rete Five Eyes, che include Australia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Canada. O almeno per un all’allargamento dell’AUKUS, l’alleanza militare chiarissimamente anti-cinese a favore della quale questa struttura di intelligence puramente anglo-sassone inevitabilmente avrà un cruciale ruolo di supporto.
Ciò significa che l’AUKUS, anche se di recentissima creazione, tende già spontaneamente a superare il suo carattere geografico-politico, quello di “NATO del Pacifico”, per assumere un ruolo diverso. Per configurarsi cioè come componente importante, o forse addirittura essenziale, del sistema di difesa dell’Occidente dalle conseguenze che l’ascesa dell’economia – e inevitabilmente del potere, nelle sue varie forme – della Cina nel quadro mondiale. E come un giocatore cruciale in una partita in cui è in ballo il verificarsi o meno delle condizioni che potrebbero far scattare quella “trappola di Tucidide” di cui si è tanto parlato sino a qualche mese fa.
Più di recente, invece, se ne è parlato di meno. E forse è un segno che non è più il tempo delle definizioni colte, bensì già quello delle misure concrete.
Fine di un matrimonio “voluto dal Cielo” ?
Tutto ciò indica a pensare che si sia di fronte ad una evoluzione nei rapporti Cino israeliani, che sono sempre stati eccellenti.
Pochi anni fa, il primo ministro israeliano Netanyahu incoraggiava infatti la Cina “ad assumere il suo legittimo posto… sulla scena mondiale”, anche se il principale e vitale alleato di Israele, gli Stati Uniti ritengono che cio non può chiaramente che volgersi a loro danno. Ed invece Netanyahu non ha esitato ad affermare che Israele fosse “il partner junior perfetto per questo sforzo,”. E chela loro alleanza fosse “un matrimonio voluto dal cielo”
Restava tuttavia che, almeno sino a ieri, la Cina si presentava come una potenza risorta dal una fase di oppressione ed umiliazione colonialista, e che rivendica il valore politico della solidarietà Sud-Sud contro gli imperialismi occidentali. La causa palestinese è pertanto sempre stata una questione che Pechino non poteva ignorare completamente, anche se le sue priorità nell’area andavano al rapporto con l’Iran e all’ambiziosa “Belt and Road Initiative”.
Abilmente, Pechino è sempre riuscita ad evitare che tali interessi fossero disturbati dalla questione palestinese. Molto esplicita sulla sofferenza dei palestinesi nelle istituzioni internazionali come le Nazioni Unite, la Cina ha sempre fatto molta attenzione a che i suoi sentimenti di Solidarietà non andassero oltre la forte retorica. Come ha scritto Sun Degang, uno dei principali studiosi cinesi di affari mediorientali, dell’importante Università Fudan, a Shanghai, la posizione di Pechino è “il moralismo passa avanti avanti a tutto quando di parla della Palestina, la cooperazione quando si tratta con Israele”».
Ma questo era – forse – solo il passato.
Giuseppe Sacco