I termini Patria e patrioti ricorrono frequentemente nelle dichiarazioni di Giorgia Meloni, e, dopo la vittoria elettorale di Fratelli d’Italia, stanno diventando di uso corrente. Già, tempo fa, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, Meloni aveva richiesto che fra le caratteristiche dei candidati ci fosse l’essere “patriota” (lasciando intendere che, per lei, molti candidati non lo sarebbero stati), ma erano subito scesi in campo illustri commentatori (in primis Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera”) a criticare quelle parole imprudenti, discettando sui concetti di Patria e patrioti. Nei mesi successivi, in discorsi tenuti da autorevoli rappresentanti delle istituzioni, ci sono stati frequenti riferimenti a tali concetti. Con la guerra in Ucraina, molti sono poi passati ad esaltare il patriottismo di quanti difendono il proprio Paese.
Debbo dire che, malgrado l’autorevolezza di coloro che hanno affrontato questo tema, le parole da loro dette non mi hanno soddisfatto perché troppo legate al presente o a riferimenti di ordine ideologico. Mi sono pertanto interrogato a lungo su che cosa il termine Patria possa significare per me, sempre che nel contesto attuale abbia ancora un senso.
Per Galli della Loggia, Patria è un temine inclusivo che va al di là delle opinioni politiche, per il quale avvertiamo di avere un legame anche con chi nel nostro Paese nutre idee politiche diverse, pure assai diverse dalle nostre. Per questo, aggiunge, solo la nazione democratica può essere una vera Patria, perché solo in un regime democratico è garantita a tutti la più ampia libertà di pensiero, e quindi il vincolo patriottico può avere piena estensione, includendo virtualmente ognuno.
Certo ogni dittatura non è inclusiva perché esclude chi non è in sintonia con gli obiettivi proclamati dal regime e si oppone od opera contro di esso. Ma siamo così sicuri che la democrazia in cui viviamo non stia mettendo al bando, con il politicamente corretto (ormai componente del bagaglio liberaldemocratico, e fatto proprio dai vertici e dagli apparati della UE), chi non si allinea ai suoi percorsi? Cosa trovo di inclusivo guardando a ciò che capita negli Stati Uniti dove una spaccatura sempre più profonda divide e contrappone violentemente due parti del Paese che non sono più in grado di dialogare, e sembra che si sia a un passo dalla guerra civile (anticipando forse ciò che potrebbe presto accadere anche in Europa)?
Sono d’accordo con lo storico sopraccitato quando afferma che la Patria indica qualcosa che è in noi, in forza di cui sentiamo di avere come italiani un patrimonio condiviso, a iniziare da quello fondamentale della lingua.
Ma qui cominciano i problemi. Oggi, l’italiano è bistrattato, umiliato, riempito di termini inglesi per sostituire nostri vocaboli perfettamente vitali e idonei ad esprimere ogni esigenza discorsiva. Un fenomeno che si inquadra in una servile accettazione (che ha pochi uguali in altri Paesi europei) di tutto quanto proviene dal mondo anglosassone. Per me, la lingua italiana è un valore primo (pur avendo pieno rispetto per le parlate locali, i dialetti, che connotano questo Paese complesso, ricco di diversità da salvaguardare). Nei secoli, è stata la lingua italiana il principale elemento in grado di dare un significato all’identità del “bel Paese là dove il sì suona”, almeno presso i ceti colti della penisola. C’è poi il crescente espandersi del politicamente corretto che mette all’indice opere che sono state fondamentali nella nostra formazione, perché giudicate maschiliste, razziste, omofobe, e censura modi di sentire e comportamenti che hanno caratterizzato modalità di vita e tradizioni secolari.
Negli ultimi decenni, sono avvenute gigantesche trasformazioni ideologiche e di costume, tali che oggi molti si sentono stranieri nel Paese in cui sono nati. Possiamo allora chiederci dove sia finita la Patria.
Patria, etimologicamente, significa la terra dei padri o degli avi, e tale a lungo è stata considerata. Il dizionario Treccani la definisce “il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni”.
Qualcuno dirà che è una formulazione superata dall’avvento del multiculturalismo che caratterizza molte società avanzate. Ma, il multiculturalismo potrebbe essere solo una situazione momentanea di determinati territori perché alla fine del percorso si imporranno una lingua e una cultura. Se saranno, in larga misura, quelle di chi ha abitato il Paese da secoli, potrà sopravvive il concetto di Patria espresso dal predetto dizionario, altrimenti verrà meno. Si potrà generare una nuova società con altri connotati, ma sarà stata la fine di una storia e la nascita di un’altra.
Perché di un’altra storia? C’è un nesso tra una storia, nel caso quella della Patria, e la sua identità?
Un essere umano che ha perso la memoria, che identità può ancora avere? Per sé e per gli altri, solo l’ombra di quanto è stato. Un malato di Alzheimer perde progressivamente la memoria. Prima quella a breve dimenticando i fatti più recentemente avvenuti intorno a lui, poi piano piano la perdita di memoria investe eventi sempre meno prossimi; le ultime cose ancora a lui presenti sono quelle dell’infanzia. Quanto resta della sua identità è legato ai tempi più lontani della sua esistenza.
Come per gli esseri umani, anche per una società sentita come Patria, è necessaria la memoria di quanto è stata? Ritengo che la memoria del passato, della nostra storia, sia un elemento essenziale per definire l’identità del nostro Paese.
Ma quale memoria? Quella dei fatti appresi a scuola sui testi di storia con date, battaglie e personaggi eminenti? Oppure quella che ci viene proposta nelle celebrazioni ufficiali di momenti salienti delle vicende di un passato abbastanza recente? Certo tutto concorre a creare una memoria, ma questo non basta. Una società (recita il Catechismo della Chiesa Cattolica) dura nel tempo, è erede del passato e prepara l’avvenire. Da che cosa è costituita questa eredità, e quanto si intreccia con la memoria di ciò che siamo stati?
È famoso il detto di Massimo D’Azeglio “abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli italiani”. Altri dopo di lui sono tornati su questo proposito di “fare o rifare gli italiani”. Nel 1914, i nazionalisti e cosiddetti “interventisti democratici” volevano una guerra in cui ritemprare un popolo che non aveva partecipato al Risorgimento; successivamente i fascisti volevano creare un’Italia nuova e degli italiani degni del passato imperiale romano; altri volevano una rivoluzione per realizzare quella modernizzazione del Paese e dei suoi abitanti che, a loro dire, la mancata riforma protestante aveva impedito.
Ma gli italiani esistevano ed esistono da secoli. A partire da quelli che fin dal XII secolo avevano portato il nome del Paese per il mondo facendone con la sua cultura, con le sue produzioni artistiche e con le sue iniziative nei più svariati campi (università, banche, manifatture artigianali, esplorazioni e scoperte geografiche, ecc.) un riferimento e un modello per gli altri Paesi europei.
La memoria di questo lungo percorso, fino agli eventi più recenti, la nostra bella lingua, le opere d’arte e letterarie dei nostri molti artisti, i monumenti grandi e piccoli che punteggiano il territorio, i centri storici delle città, i paesaggi fortemente segnati dalla millenaria presenza umana sono l’eredità che ci hanno lasciato i nostri padri e che costituiscono la nostra casa. Di qui viene la nostra identità che si manifesta anche in tutto quanto sanno fare ancora oggi i nostri artigiani, tecnici, ricercatori e lavoratori grazie all’eredità di quel passato. Questa è per me la Patria.
Un discorso molto simile potremmo fare per l’Europa la cui identità è espressa da quella mens europea nata dai processi culturali, spirituali e politici che si sono affermati nel corso di una lunga e travagliata storia. Chi (come l’attuale vertice comunitario), per valutare l’idoneità di chi aspira ad entrare nella UE, prende in considerazione i soli requisiti giuridici e i parametri economici del candidato non ha la minima idea di che cosa significhi il termine Europa. In tal modo, la UE non sarà mai una Patria.
Inoltre, oggi, la dilagante cancel culture vorrebbe ridurre la storia, in particolare quella europea, a una sequenza di obbrobri e fatti criminali. Certo, come nelle vicende delle persone, così nella storia dei popoli e delle civiltà, si riscontrano pagine felici e pagine oscure. È bene conservare memoria delle une e delle altre, e mettere sull’avviso affinché le tragedie vissute non si ripetano. Tuttavia bisogna riconoscere che l’intreccio tra gli aspetti positivi e quelli negativi è talora così intricato da non renderli disgiungibili. Penso, all’epoca delle scoperte geografiche, dei viaggi e delle esplorazioni che hanno cambiato la percezione del mondo tanto che dalla scoperta dell’America facciamo nascere l’evo moderno. A tali imprese, si sono accompagnati o hanno fatto seguito i genocidi dei popoli amerindi e dell’Oceania, l’asservimento e la schiavitù delle popolazioni indigene in varie parti del pianeta, la tratta degli africani e il colonialismo. Eppure proprio a quell’Europa, il mondo odierno deve ciò che è diventato anche in termini di cultura, progresso, arte e sapere.
Dietro al concetto di Patria non c’è una memoria selettiva che prende questo e lascia quello. Certo ci deve essere la capacità di giudizio per distinguere il positivo dal negativo, ma è bene tenere presente che i fatti della storia non si possono giudicare sul metro dei “valori” contemporanei, sempre nel tempo destinati a mutare.
In materia, Franco Cardini ha scritto (in Il dovere della memoria) che la storia non può essere un tribunale di moralisti: comprendere non vuol dire giudicare, bensì capire in profondità la storia. Un bisogno oggi più acuto che mai poiché viviamo in un’epoca che si sta caratterizzando da una parte per l’aumento della dimenticanza storica dovuto a un generale istupidimento coatto, e dall’altra per il moralismo storico, come dimostrato dalla recente furia iconoclasta registratasi nel mondo occidentale.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)