Per le fedi monoteistiche, Dio trascende il concetto di genere umanamente inteso. I termini maschile e femminile non Lo concernono, anche se ha creato uomo e donna a Sua immagine. Già in età e culture arcaiche la femminilità pare abbia avuto un ruolo talvolta preminente: si pensi al culto oggi definito della “grande madre”. Il concepire la presenza di una parte femminile di Dio ha attraversato epoche e dottrine, risultando presente nell’Ebraismo, nello Gnosticismo cristiano di scuola alessandrina e anche nell’ortodossia cristiana. Infatti, allorché viene a determinarsi la visione cristiana della divinità -permeata com’è di cultura greca- emerge la Sophia (“sapienza” divina), quale componente femminile dell’essenza divina.

Un’importante notazione in merito: papa Luciani, nel corso di un’udienza, ha detto che Dio è madre. Parlando con semplicità, ha inteso dimostrare la naturalezza del concetto e della giustezza dell’inclusione, non della separazione. Il Padre nostro è anche Madre, nella sacralità della procreazione e dell’idea dell’uguale valore di tutti i corpi umani. Per i cristiani uomo e donna sono creati a immagine dell’identità suprema di Dio. Essendo uguali nella sostanza, le loro sensibilità sono atte a integrarsi, giacché esprimono entrambe il “volto stesso” di Dio.

La condizione femminile è sempre dipesa dalla dimensione religiosa e dal suo evolvere nei vari popoli. In riferimento alla cultura cristiana cattolica, ai suoi valori e aspetti religiosi, va rilevato quanto essa abbia influenzato usi e credenze popolari e modelli sociali. Per esempio, per san Tommaso la donna è sottomessa all’uomo, in quanto creatura fisica, anche se la sua anima ha lo stesso valore rispetto a Dio. Dunque, in ciò che nel Medioevo è essenziale -l’anima- vi è parità, ma non è così per tutto il resto. Anche per questo, sono particolarmente le donne, in quel tipo di società, a ricevere un’educazione improntata alle regole della religiosità e della sottomissione. Però è pur vero (e documentato) che sovente l’adesione a un ordine monastico rappresenta, per una donna, anche un’affermazione di personale libertà e un approdo sicuro, staccato com’è dalla dura, obbligante condizione familiare femminile. Molte sono coloro capaci di testimoniare l’amore in Dio proprio attraverso una vera secessione dal mondo, come rappresenta Dante attraverso le volontà di Piccarda Donati e di Costanza d’Altavilla nel cielo della Luna: in un’avvincente visioni di esseri reali- non illusioni ottiche- che sono animati da uno spirito di carità che li fa desiderose solo di quello che hanno e di abbandonarsi totalmente a Dio.

Meglio si comprende il loro spessore ideale e spirituale, tenendo conto dell’influenza, per il formarsi dell’immaginario e della sensibilità di Dante, di notorie figure femminili illustri. Fra i modelli di grandi donne è possibile ricordare la gran feudataria Matilde di Toscana: combattiva e soprattutto devotissima, era presto assurta a icona, anche politica, per i guelfi fiorentini, in virtù del legame con papa Gregorio VII e, soprattutto, dello smacco inflitto a Enrico IV, a Canossa. Fra le famose mistiche, risalta Mechthild von Magdeburg, beghina e poi monaca tedesca, che ha l’ardire di scrivere: “Signore tra Te e me tutto è bello”.

Così come Angela da Foligno, mistica e terziaria francescana, che confida: “Sebbene io possa ricevere dall’esterno gioie e dolori, a seconda dei tempi e con misura, tuttavia dentro la mia anima è una camera nella quale non entra né gioia, né mestizia, né diletto di alcuna virtù, né piacere di nessuna cosa definibile, ma in essa abita quel bene che non è un bene particolare, ma un bene così totale, che non esiste altro bene”.

“L’ ardente” Piccarda  e “la lucente” Costanza si situano nel percorso di nobilitazione della virtù al femminile che ha l’ideale coronamento in Beatrice, la quale aggiunge, alle qualità celesti delle predette, lo splendore dei suoi occhi e della sua sapienza, ambedue salvifici per Dante. Le parole di lei, morta giovane, forse di parto, suggellano il canto. Nel quale ancora una volta il poeta connota di bellezza e solarità il genere femminile. Fa capire che la nobiltà è donna. Non perché gli si presentino spiriti di donne nobili, ma perché sono donne dallo spirito nobile. Tali sono state da vive, e a maggior ragione dopo, in cielo. Il mondo terreno, che è fatto di cieca violenza, e ha la capacità di abbattersi sulla vita di tutti, specie delle donne, le ha prese di mira, ma non ha lasciato traccia: non resta in loro più nulla del gravame subdolo e appiccicoso del potere dei violenti.

Il misticismo innerva anche la cultura islamica: “Nel mercato e nel chiostro non ho visto che Dio/ Nelle vallate e sulle vette non ho visto che Dio/ Nelle lodi e nelle contemplazioni non ho visto che Dio…”, scrive Gidal ed Din Rumi (1207-1273), grande poeta e spirito mistico.

Soprattutto Muhyī al-Dīn Ibn al-Arabī, poeta sufi andaluso del XII-XIII secolo, nei versi del suo Tarjumān al-Ashwāq  (l’Interprete dei desideri, una sorta di Vita Nuova) esalta la figura della donna, simbolo della sapienza divina, e l’universalità dell’amore: “Si è fatto, ormai, il mio cuore capace di ogni forma / per le gazzelle è un pascolo, è convento ai monaci cristiani/ si fa tempio per gli idoli…”. E nell’Islam, “religione di uomini”, secondo una definizione impropria che coglie, però, la persistente tendenza a limitare i ruoli per le donne, non mancano rilevanti personalità femminili: come la poetessa andalusa Wallada (XI sec.), o la mistica Rȃbiʿa (VIII sec.), devote dalla profonda ispirazione.

“Voglio spegnere i fuochi dell’inferno- scrive Rabi’a-  e bruciare le ricompense del Paradiso. Bloccano la via verso Dio. Non voglio adorare per paura della punizione o per la promessa di ricompensa, ma semplicemente per l’amore di Dio……Il mio cuore è pieno dell’amore di Dio e non ha spazio per l’odio”.

Nino Giordano

About Author