La democrazia, avvertiva Norberto Bobbio, genera attese che non è in grado di soddisfare. Ampliando i margini di libertà e alimentando il “mito” dell’uguaglianza, dilata le aspettative degli individui. Se a ciò aggiungiamo la velocità con cui la tecnologia sta cambiando la nostra vita, ecco spiegata la crescente ansia dell’homo democraticus per ciò che non-ha-ancora, che non di rado diventa frustrazione per non averlo qui e ora.
Ecco, le democrazie vivono in questo precario equilibrio, e sono tanto più solide quanto più riescono a minimizzare le aspettative disattese. Cosa sempre più difficile, visto che nei regimi democratici tende a crescere l’asimmetria
temporale tra l’urgenza delle aspettative degli individui e la lentezza delle risposte della politica. E questo non può che accrescere l’inso ddisfazione.
I tempi degli individui e quelli delle istituzioni tendono a confliggere, e cala la fiducia nella democrazia. Questa frustrazione delle aspettative trasforma le crisi economiche in uno dei più subdoli nemici delle democrazie e, in questo momento storico, accresce quella sfiducia nella democrazia già alimentata dalle nuove disuguaglianze. Sfiducia ulteriormente accentuata dalla perdita di “senso storico” dell’homo democraticus, sempre più proiettato nel futuro, sempre meno soddisfatto del presente e consapevole del passato.
L’idea che per la prima volta nella sua storia il Vecchio continente abbia vissuto settant’anni di pace e di sviluppo, che per la prima volta oggi abbiamo in Europa una generazione che è arrivata all’età più adulta senza aver conosciuto la guerra, sembra essere una curiosità per pochi. Gli stessi che non dimenticano che nel cuore dell’Europa, dove oggi sono quelle istituzioni nelle quali i popoli europei per convinzione e per convenienza decidono insieme i propri destini, vi erano i campi di concentramento in cui Europei sterminavano altri Europei.
Tra i “nativi democratici”, che non hanno conosciuto la guerra e la dittatura, cresce così la tentazione di “democrazie illiberali”. Aumenta il rischio di cadere in quello che Salvemini chiamava “errore di logica”: scambiare i difetti della democrazia con la prova del suo fallimento, credendo che se in democrazia si sta male, rinunciando almeno in parte a essa si starà meglio.
Uno dei più efficaci antidoti contro questa falsa credenza è proprio la conoscenza storica, la quale consente di collocare storicamente il presente e quindi di arginare la preoccupante dilatazione delle aspettative sulle performances della democrazia alimentata proprio dall’astrarre dal tempo storico la realtà in cui si vive. Facendoci acquisire la consapevolezza della reversibilità della democrazia, e di quanto lunga e sanguinosa sia stata la via che ha portato alle piccole e grandi conquiste su cui nella vita possiamo contare, la conoscenza del passato tempera le insoddisfazioni dell’homo democ ra t i c u s . Collocandoci in una tradizione, ci fa apprezzare meglio quello che abbiamo, combatte la sindrome dei nostri giorni di essere costantemente in preda all’ansia per quello che non abbiamo, di vivere con fastidio il presente storico perché “non ancora futuro”.
La conoscenza storica aiuta dunque a storicizzare il presente, a collocare la vita delle persone, con i suoi vincoli e le sue possibilità, nel tempo storico. Rende meno difficile tenere in equilibrio senso della realtà e senso della possibilità, è quindi una buona profilassi contro pericolose fughe dal tempo, un antidoto contro il perenne richiamo delle sirene dell’utopia, che finiscono per sfociare spesso in apodittici giudizi di condanna del presente.
E tutto questo non per diventare giustificatori di ogni nefandezza, né per rifugiarsi nel passato impauriti dall’avvenire, ma per rendere realistica e non avventuriera la propensione al futuro. Non per smettere di criticare la democrazia, ma per capire che essa è l’unico regime che consente di essere criticato. Difendere lo studio e l’insegnamento della storia significa pertanto difendere la democrazia. E questa non è proprio l’ultima ragione per invertire quella pericolosa tendenza che ha penalizzato in questi anni proprio la storia nei programmi scolastici, fino ad arrivare alla sciagurata decisione di eliminare la traccia di storia dalle prove scritte dell’esame di maturità.
Enzo di Nuoscio
Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano il 5 dicembre 2019. Ottavo di una serie dal titolo ” Per una democrazia inclusiva”