Sarebbe ora che qualcuno gettasse un sasso in piccionaia e costringesse una politica pusillanime ad uscire da un opportunistico incantamento catatonico che rischia di soffocare il Paese, per affrontare di petto – al di là del classico e tradizionale riformismo – quel necessario processo di “trasformazione” evocato, fin dall’originario “Manifesto” fondativo ( CLICCA QUI ) , di ciò che oggi è INSIEME, in quanto partito. Trasformazione” che, di necessità, concerne, anzitutto, il sistema politico.

A parte l’efficacia con cui Draghi affronta i versanti essenziali della sua agenda programmatica – lotta alla pandemia e PNRR – il governo in carica possiede una virtu’ “potenziale”, che, paradossalmente, nasce dai suoi stessi limiti e non dev’essere sciupata. Potrebbe rappresentare il clivaggio che permette di transitare finalmente da una stentorea ed un po’ cafonesca presunta “politica di potenza”, interpretata da braccio di ferro dei due schieramenti del bipolarismo maggioritario, ad una “politica dialogica”.

Nato, come sappiamo, da un monito ultimativo del Presidente della Repubblica, per quanto ciò avvenga entro margini blindati dall’autorevolezza e dalla determinazione del Presidente del Consiglio, l’attuale governo costringe le forze politiche ad interloquire tra loro su temi che concretamente investono la vita quotidiana degli italiani.
Come se stessero seguendo un corso accelerato di riabilitazione alla loro funzione. Una dialettica del dialogo e del confronto, piuttosto che la ricerca ossessiva di una contrapposizione pregiudiziale necessaria a presidiare il campo delle rispettive pertinenze elettorali, consentirebbe a ciascun partito di uscire da quella postura blindata e forzosamente rigida che, nella misura in cui è costretta ad “ideologizzare” le rispettive posizioni, le indebolisce e perfino, a tratti, le snatura.

Nell’attuale sistema, la politica soffre di quell’ “ansia da prestazione” che fa danni anche qui, oltre che in ben altri campi. Succede che il settimanale sondaggio venga vissuto drammaticamente per scostamenti insignificanti dal dato precedente oppure quella minima incollatura che segnala il momentaneo prevalere di una forza sull’altra sia interpretata come un segno del destino. E’ ben vero che la politica è fondata sul consenso e quest’ultimo ha un incontrovertibile peso numerico, ma è altrettanto vero che la politica va misurata anche in funzione del “peso specifico” delle posizioni che via via assume.

La coerenza interna di un progetto politico spesso vale di più, in quanto a capacità d’incidere sul corso degli eventi, che non diversi punti di percentuale elettorale. Insomma, avremmo bisogno di una politica ragionevole e mite piuttosto che di un confronto muscolare che evoca, talvolta, spettacoli di wrestling. Senonché, sembra prevalere fin d’ora, in vista del confronto elettorale delle prossime politiche, la ricerca di una riedizione cieca dell’attuale quadro bipolare: centro-destra non più a trazione berlusconiana, bensì, al contrario, secondo la vulgata illiberale, populista e nazional-sovranista da una parte, “campo largo”, cioè versione edulcorata e camuffata della vocazione maggioritaria dall’altra.

Occorrerebbe qualcuno che abbia il coraggio di dire che “il re è nudo”. Nlla fiaba di Andersen, solo un bambino è capace di tanto. E anche nel nostro caso lo può fare solo chi – non avendo interessi di potere da preservare ed osservando il sistema politico da fuori, anziché essere posseduto dalla smania di intrufolarcisi – ha il coraggio della “de-coincidenza”, la capacità, cioè, di coltivare un pensiero divergente, che spiazzi quel tanto di confortevole ipocrisia che avvolge pressoché tutti gli attori in campo. Insomma, una forza che, come INSIEME, goda della freschezza del suo primo inizio.

L’Italia, messa a dura prova dalla crisi finanziaria del 2008 e fiaccata dalla pandemia, ha bisogno di riprendere vigore. Deve trovare la spinta necessaria ad affrontare gli imponenti processi di “trasformazione” che la attendono.
Non a caso, definiamo i più delicati passaggi da cui già siamo investiti, ricorrendo al concetto di “transizione”.
Siamo in una condizione tale per cui, smarrite antiche certezze consolidate nel tempo, fatichiamo a costruire nuovi equilibri. Anche la democrazia esige una fase di transizione.

Aggredita da una crisi profonda degli ordinamenti istituzionali che ne hanno garantito la funzionalità nel tempo della modernità, deve affrontare, appunto, la “transizione”, il passaggio ad una stagione radicalmente nuova. “Rappresentanza” e “governabilità’” sono concetti o meglio condizioni che concretamente devono essere – ciascuna – ripensate e ridefinite nella loro reciprocità. Senza cedere alla suggestione che la seconda possa essere ottenuta, si potrebbe dire, meccanicamente, cioè attraverso artifici che siano a scapito della prima. Sostanzialmente, quel che è successo da noi.

Le leggi elettorali maggioritarie hanno imposto un bipolarismo del tutto incapace di dar conto della ricca articolazione di culture e di opinioni che attraversano la società civile. Le relazioni politico-istituzionali tra i due poli si sono orientate, si direbbe necessariamente, verso una reciproca delegittimazione delle parti che ha, via via, condotto alla condizione di grave degrado e di pericolosa involuzione che lamentiamo oggi.

Il dilagante astensionismo; la profonda crisi dei partiti, di fatto incapaci di rispondere alla loro funzione originaria così come riconosciuta dalla Carta Costituzionale; l’imponente “transumanza” dei parlamentari da un gruppo all’altro che ha segnato la legislatura in atto; l’ incapacità di dar vita ad una maggioranza di governo nel segno della classica dialettica parlamentare; l’estrema difficoltà, almeno fin qui registrata, di dar corso ad un concerto di relazioni che siano capaci di orientare l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica: rappresentano una pluralità di indizi che costituiscono la prova della grave patologia del nostro sistema politico. Destinato, a meno di un deciso colpo di barra che cambi la rotta, ad impaludarsi in una situazione, che, fattene salva la forma e gli aspetti procedurali, di fatto compromette, in modo esiziale, la sostanza della democrazia.

Cambiare rotta si può, purché si riconosca come, sempre e comunque, la governabilità debba essere e, di fatto sia, una funzione della rappresentanza e non viceversa. E’ giunto, in altri termini, il momento di adottare una nuova legge elettorale espressamente di carattere proporzionale. Infatti, si può ancora rianimare una convinta partecipazione popolare al discorso pubblico, solo restituendo agli elettori la facoltà di orientare liberamente il loro consenso in funzione della complessiva visione di sviluppo cui fa riferimento la loro personale sensibilità morale e la relativa cultura politica.

Le istituzioni democratiche vivono della fiducia dei cittadini e tutti abbiamo bisogno di investire sull’ intelligenza politica del nostro popolo. Ovviamente, si tratta di studiare una legge che, attraverso opportune clausole di soglia, favorisca la governabilità del sistema e, per altro verso, contemplando il voto di preferenza, consenta al cittadino, a maggior ragione, di “eleggere”, nel senso forte del termine, chi lo rappresenti.

A chi paventa che il metodo proporzionale favorisca un aumento incontrollato di formazioni politiche ed una conseguente dispersione pulviscolare del voto, rispondiamo che, per molti aspetti, ciò si è piuttosto verificato in costanza del sistema maggioritario. Spetta, se mai, alle forze politiche riguadagnare quella capacità di interlocuzione dialettica e di mediazione che qualifica la loro funzione. Dando luogo, in tal modo, ad un processo di selezione destinato ad eliminare il “non adatto”, cioè i soggetti politici incapaci di concorrere ad un discorso pubblico fondato su reciproco riconoscimento e legittimazione delle parti. Assestando, in tale modo, un sistema politico effettivamente “trasformato”, su una linea di piena rappresentanza e di corretto, fisiologico funzionamento.

Domenico Galbiati

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