E’ da un pezzo che si parla del ritorno dei cristiani in politica. Ovviamente, ci si riferisce in via generale ad una presenza organizzata. Anche se c’è chi continua ad illudersi sulla prospettiva dei cento fiori su cui, e in cui, svolazzare. Sottovalutano che l’esperienza ha dimostrato che la sommatoria dei profumi obnubila e fa tendere più all’acquiescenza, alla remissività.

In ogni caso, vi sono delle sollecitazioni, delle spinte, degli incoraggiamenti, persino delle richieste, argomentate sulla base di  varie ragioni, alcune delle quali anche interessate. Si è giunti a leggere, persino, malinconiche revisioni del giudizio sommario a lungo dato sull’esperienza democristiana, durante e dopo la fine della cosiddetta Prima Repubblica. E’ curioso, ma sono venute, e tuttora vengono, soprattutto dal campo laico. Questa, però, è cosa diversa dal vedere reinterpretata quella cultura politica che significa più solidarietà e la ricerca della coesione sociale. Si tratta molto spesso, infatti, dall’abbandonarsi al mero paragone tra la stagione di quelli che, nonostante limiti e criticità, portarono l’Italia a divenire la quarta potenza più industrializzata al mondo e ” questi qua”, come li chiama Filippo Ceccarelli nel suo “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, Universale economica Feltrinelli).

Così, la questione dei cattolici in politica rischia di finire per riguardare altro, anche se a nessuno sfugge che, nel corso della lunga stagione della Democrazia cristiana, il termine “cristiana” produsse pure qualcosa in termini di solidarismo e di superamento di molte disparità sociali e tra i territori. Gli uomini della Dc, insomma, riuscirono a tradurre almeno in parte, e in termini concreti, l’ispirazione che li teneva insieme e che li radicava in un pensiero antico tradotto e reso emblematico con  il termine “popolare”.

C’è qui un paradosso interessante da rilevare: questi “nostalgici” laici dell’era democristiana finiscono per dirci tutto quello che è mancato a tanti politici cattolici nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Hanno fatto i ministri, i parlamentari, o anche solamente i capi di partiti, dc o popolari, lentamente ridotti solamente ad una etichetta da provare a spendere in qualche modo. Magari, barcamenandosi con la stessa disinvoltura tra destra e sinistra, tanto erano alla ricerca di uno strapuntino: saltando da una parte all’altra, a seconda del vento che tirava in questa o quella legislatura.

La carenza è stata, e tutt’ora è, quella di limitarsi a dirsi cristiani. Mettersi a cercare un consenso esclusivamente su questa base; senza preoccuparsi minimamente di quale potesse essere l’idea di Paese da prospettare agli italiani; del come davvero fosse possibile  sostenere la famiglia; oppure, porre mano al degrado della Scuola, o prospettare una difesa del lavoro, di tutto il lavoro più che dei posti di lavoro, come invece dice di fare, e su questo molto ci sarebbe da dire, la sinistra. Insomma, in molti si sono abbandonati all’enunciazione di un’ispirazione senza avere la capacità di concretizzarla in un progetto politico di ampio respiro e, neppure, riuscire ad intervenire su singoli provvedimenti importanti, compreso quelli che investono questioni etiche ed antropologiche.

C’è qualcuno in grado di legare il nome, chessò, di Pier Ferdinando Casini, di Lorenzo Cesa, di Pier Luigi Castagnetti a qualche importante legge in grado di lasciare un segno? Come, insomma, avvenne ai tempi della riforma agraria di Segni, il Piano casa di Fanfani, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale da parte della Tina Anselmi, o per l’obiezione di coscienza con Giovanni Marcora, oppure ancora con Donat Cattin e lo Statuto dei lavoratori. Casini, Cesa e Castagnetti, mi perdonino loro per la citazione e gli altri per non averli citati, hanno sicuramente fatto altro di buono, ma non quanto ci potrebbe consentire di dire: vedo lasciata un’impronta.

I quasi trent’anni della diaspora non sono serviti solamente a disperdere il voto dei cattolici, che per lungo tempo fu coinvolto in una prospettiva di natura popolare, e fu equilibrato e costruttivo. Il guaio peggiore è stato quello di non riuscire ad elaborare e a proporre più niente. Quindi, di non rappresentare più niente. Né gruppi sociali, né ideali politicamente concretizzabili.

Così adesso, anche andando verso le elezioni delle grandi città metropolitane, rispuntano partiti e partitini che s’incamminano con ammirabile baldanza; in qualche caso, con una certa incoscienza. Si prova a presentare qualche listarella o a infilare qualcuno nelle liste altrui solo sulla base di una generica attestazione di fede cattolica.

Peccato che al voto dei cattolici guardino un po’ tutti. Non c’è nessuno che disdegni i voti dei cattolici. Anzi. Matteo Salvini ha a lungo sbandierato il rosario. Giorgia Meloni si dice tutti i giorni cristiana, in questo emulando la collega Le Pen. Lo fa anche Berlusconi che, però, dobbiamo riconoscerlo ha attinto a piene mani al personale degli ex democristiani. Però, privatamente diceva di diffidarne, e ne ha dato prova concreta eliminandone politicamente più d’uno nel corso di tre decenni: pensava che quelli fossero gli unici in grado di “farlo fuori”.

Nella destra, alcuni cattolici restano appassionatamente. Nonostante l’antieuropeismo che colpisce al cuore uno dei più grandi patrimoni lasciati dal pensiero popolare europeo. Nonostante l’emersione a destra di chiari atteggiamenti di egoismo sociale, persino di razzismo, o almeno di ostilità verso il “diverso”, che poi si tratti di italiani o di stranieri immigrati poco cambia.

E a sinistra? In questo caso, ci troviamo di fronte addirittura ad un partito, il Pd, nato con il doppio sigillo: quello degli ex comunisti e quello di una parte di ex democristiani. La stagione del “berlusconismo” fu utile a questo cementare due tradizioni, persino due cultura politiche diverse, tanto divise e contrapposte dal ’45 alla caduta del Muro di Berlino.  L’effetto è quello di amalgamare, o fare finte di amalgamare, uno schieramento solo perché è avvertito impellente il reagire a comune nemico. Per quella lotta,  che fu aspra e radicale, venne sacrificato tutto: identità e specificità di cose da offrire agli italiani.

Per certi aspetti, Salvini è subentrato a Berlusconi.  Al punto che molti cattolici dicono di restare nel Pd perché dev’essere continuata la battaglia, anche se l’immagine del capo degli avversari è cambiata. Eppure hanno dovuto “ingoiare” tanti provvedimenti in grado di smuovere la coscienza di un credente: la legge Cirinnà, seguita dal Fine vita assistito e, in questi giorni, dal ddl Zan. Mario Draghi sta rendendo, però, un po’ più complicata la cosa, inventandosi un Governo che comprende tutti loro, Salvini e i 5 Stelle.

Non ci risulta che quelli che si definiscono cattolici tra i democratici pongano la questione dei mutamenti sociali e antropologici  in modo da non essere declinati dall’intero partito solamente sulla base di quella visione radicaleggiante che ha fatto nascere la definizione del Pd “partito radicale di massa”.  Così, pure loro finiscono per favorire quell’individualismo più sfrenato, proprio della degenerazione di una visione liberale divenuta esasperato liberismo, giunto a esaltare il singolo rispetto ad un’indispensabile tensione comunitaria. Probabilmente neppure loro avvertono che in tutto ciò ricadono le vere ragioni della crisi del centrosinistra. che dura da almeno un decennio e che lo ha ridotto ad essere il partito delle Ztl, le aree cittadine di una borghesia preoccupata più di essere ” à la page” che di ritrovare la via.

Giancarlo Infante

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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