Ci incontriamo sabato a Palazzo Marino – con Stefano Zamagni, Giancarlo Infante ed i coordinatori regionali del Nord di POLITICA INSIEME – per fare un primo punto in ordine alla stesura di un programma che traduca in progetti operativi le linee di indirizzo generale del Manifesto che abbiamo presentato a Roma lo scorso 30 novembre.
Il classico e tradizionale “riformismo”, smarrita la polarità che lo contrapponeva alle vetuste aspirazioni rivoluzionarie di un’età ideologica surclassata dalla storia, non ha più molto da dire; non ha contezza di nuove categorie interpretative, di aggiornati criteri di giudizio e di orientamento, indispensabili perché la politica non si limiti ad accarezzare le asperità dell’ attuale contesto sociale, al più addolcendone alcuni profili, ma senza alcuna sostanziale capacità di dirigere, dal di dentro della loro effettiva consistenza, le mutazioni che quotidianamente ci incalzano.
Dobbiamo uscire dalla stretta di schemi abusati e lo stesso linguaggio della politica va rigenerato. Parole e pensiero possono reciprocamente arricchirsi, ma anche vicendevolmente impoverirsi. Un linguaggio che, per quanto aulico, non trovi corrispondenza in una forma di pensiero strutturata e forte e’ solo un “flatus vocis” che si stempera nel vuoto e oggi se ne sentono in abbondanza. Ma anche costrutti concettuali coerenti che non trovino le parole con cui dirsi rischiano di affondare nelle sabbie mobili.
Insomma, occorre una “trasformazione” della cultura e dell’azione politica; sono necessari parametri e pensieri di lunga durata che consentano di prevedere, per quel che si può, precorrere e pre-ordinare se non gli eventi che si succedono in virtù di una loro dinamica interna che spesso ci sfugge, perlomeno la nostra capacità di corrispondervi, anziché subirne l’urto.
Ma cos’è davvero un “programma” o forse meglio un “progetto” che dia conto di una visione sintetica e lucida del momento storico in cui si pone? Quale impalcatura, quale coerenza interna deve rispettare? Se guardiamo all’età degasperiana, alla stagione fondativo della nostra convivenza civile e democratica si possono individuare le linee portanti di un progetto nelle cui maglie si sono via via collocati programmi specifici e settoriali, resi possibili dalla struttura concettuale d’insieme che li ospitava.
L’indirizzo costituzionale di piena garanzia democratica offerto al Paese, la scelta atlantica e quella europea, la linea di governo che ha associato le forze laiche e “centriste” alla costruzione della Repubblica democratica, lontano da ogni suggestione integrista, quando pur la DC disponeva della maggioranza assoluta in Parlamento. E poi, a seguire, la costante preoccupazione morotea diretta ad ampliare progressivamente le basi democratiche dello Stato; la perenne attenzione ai nuovi fermenti della società; la capacità – pur nella fedeltà atlantica e nella condizione di un Paese comunque uscito sconfitto dalla guerra – di articolare una politica mediterranea e di rapporti con il Medio Oriente che, ove fosse stata compresa da altri protagonisti della scena internazionale, avrebbe forse consentito una storia diversa anche ai nostri giorni.
Linee portanti che stanno tutte sulle dita di una mano o poco più proprio perché capaci di cogliere l’essenziale, frutto di una lettura profonda, sapiente, coraggiosa, perfino ardita di quel tempo storico, un’età da far tremare i polsi ad una classe dirigente che non avesse avuto la cultura e la tempra morale di quei protagonisti. Ed oggi, invece delle dita di una mano, abbiamo forse bisogno di un pallottoliere per mettere insieme il pranzo con la cena?
Eppure, forse, alcune prospettive di lunga gittata possiamo tentare di ricavarle.
***In primo luogo, una forte conferma della scelta europea, secondo un percorso diretto all’unità politica del vecchio continente e, se non alla sua autosufficienza, ad una crescente autonomia, anche nel campo della difesa.
Un’unità europea tanto più consapevole di sé quanto relativamente meno incardinata in un contesto atlantico, a sua volta in evoluzione, e cosciente di rappresentare, per certi aspetti, l’unico bastione di un ordinamento effettivamente democratico, diretto a garantire libertà, giustizia sociale, superamento degli enormi divari di benessere che ci affliggono. Per quanto riguarda, in particolare, il nostro Paese, la capacità di articolare la nostra vocazione europea in una chiave mediterranea, fino a concepire la strategia di una sorta di aggregato “euro-africano”.
***Il quale allude – in secondo luogo – ad un’altra tendenza di lungo periodo cui non possiamo sfuggire.
Le migrazioni, in sostanza, altro non sono se non l’incipit che un processo storico di cui è necessario essere consapevoli, ineluttabilmente diretto alla progressiva formazione di società multietniche, multiculturali, multireligiose. Ci piaccia o no, dovesse prendersi per intero il tempo che resta del ventunesimo secolo.
***Ancora: la creazione di sistemi educativi che siano in grado di assicurare effettiva capacità personale di giudizio, autentica attitudine critica alle giovani generazioni, sottraendole a percorsi di omologazione del pensiero che minerebbero dall’interno una democrazia che può reggere solo a prezzo di una significativa maturazione della coscienza civile.
***Un altra linea di lungo periodo esige che i Parlamenti sappiano legiferare per ricondurre l’enorme forza di impatto degli sviluppi della conoscenza scientifica e della pervasività della tecnica nella forma di indiririzzi che siano eticamente orientati secondo un ordine di valori condivisi.
***Questo, peraltro, a sua volta rinvia ad un altro capitolo essenziale ed irrinunciabile delle politiche del nostro domani prossimo e meno prossimo: la vita, l’autocomprensione, la concezione di se’ che l’umanità è chiamata a rielaborare e le “biopolitiche” che devono farsene carico sul piano, anzitutto, del “nascere” e del “morire”, sia a livello individuale, sia sul piano collettivo della sopravvivenza ambientale.
Non è molto, ma forse alcuni di questi indirizzi, opportunamente sviluppati, potrebbero offrirci una prima mappa secondo cui orientarci, senza rischiare di smarrirci nella “selva oscura” di un tempo tempestoso, ma terribilmente affascinante.
Domenico Galbiati

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