“Il gioco dei quattro cantoni” cui Gianni Rodari dedica un libro è più  semplicemente, appunto, un gioco che – italianizzando un’espressione dialettale milanese dove “cantone” sta per “angolo” – si gioca in cinque. Quattro stanno agli angoli di un quadrato e devono continuamente scambiarsi la posizione. Il quinto sta in mezzo e deve cercare, di soppiatto, di intrufolarsi in un angolo, a detrimento di chi lo deteneva, il quale, a quel punto, deve mettersi al centro.
Insomma, sia pure a turno, c’è n’è sempre uno spiazzato.
La regola è tale per cui uno gioca contro tutti e tutti giocano contro uno. Per sua natura, è un gioco che non finisce mai, talché cessa solo per esaurimento e non ammette né un vincitore, né un vinto. Insomma, è il classico gioco a somma zero che consiste in una successione illimitata e, ad un tempo, assolutamente ripetitiva, di posizionamenti e riposiziona menti, apparentemente mutevoli e sempre nuovi, in effetti perfettamente uguali a sé stessi e stucchevoli fino alla noia. Se non altro è, però, una metafora abbastanza calzante dei sommovimenti che le varie anime “democristiane” inscenano nel fatidico “centro” dello schieramento politico.
Dico “anime” perché spesso corredate da un corpo perlomeno esangue e “democristiane” perché – e lo dico in termini di condivisione e di sincero apprezzamento – concordo con chi sostiene che, nel caso specifico, il prefisso “post” non si possa porre. Essere “democratici-cristiani” è una sorta di categoria dello spirito, per cui si è o non si è. Chi lo è stato attivamente, è bene che continui ad esserlo, per quanto in differenti contesti.
L’agognato “centro” è talmente popolato da leaders veri, improbabili, presunti o sedicenti , talché se osservassero il distanziamento prescritto lo dilaterebbero fino ad occupare quasi l’intero emiciclo delle aule parlamentari.
In fondo, la DC è stata anche un campionario di varia umanità ed anche questa, in definitiva, e’ stata una delle ragioni della sua forza, della sua capacità di aderire alla realtà del Paese, anche nelle sue espressioni meno consuete ed originali.
Anche oggi se ne conserva traccia. Non ricordo, ad esempio, chi sia, ma – per dire l’originalità –  c’è stato anche chi ha sostenuto che Berlusconi sarebbe il nuovo De Gasperi. Non si sa se prima o dopo una abbondante libagione e, soprattutto, se idee del genere vengono a getto oppure dopo attenta e pacata riflessione. Ma per andare al dunque, dovremmo dire, mutuando dal vecchio Nenni: politique d’abord, la politica innanzi tutto.
In buona sostanza, anziché cercare con la lanterna di Diogene, il federatore che – per fortuna – non c’è, perché non federarci attorno ad un’idea del nostro Paese e dell’Europa, ad una visione “politica” del domani, tutto da costruire, concorrendovi con l’intensità della nostra cultura politica e dell’ispirazione cristiana che la anima e ci anima?
Qualunque federatore trovassimo, che privilegiasse una sofisticata capacità di analisi politica oppure una straordinaria attitudine a decidere e governare o ancora una forte capacità di motivare idealmente, in ogni caso, riducendo il progetto alla sua personale dimensione, fatalmente lo impoverirebbe, fino a renderlo sterile. Proviamo a cambiar gioco e ad investire sulla collegialità di un impegno comune e condiviso da tanti.
In altri termini, proviamo davvero a riscoprire la nostra vocazione popolare, anche nelle forme, da reinventare, della nostra militanza politica. E’ una sfida. Una scommessa per nulla scontata. O c’è qualcuno che ha un progetto di sicuro successo a scatola chiusa?
Usciamo dalla palude di una partita che non ci appartiene, condotta secondo regole che non sono le nostre.  Investiamo, piuttosto, sulla nostra ispirazione e sulla nostra cultura politica, secondo un principio di autonomia che finalmente, dopo quasi trent’anni, ci riscatti da una sofferta soggezione ora alla destra, ora alla sinistra.
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata: Pixabay

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