I rapporti tra la Chiesa Cattolica e la Cina sono, come si può vedere dai giornali di oggi, un argomento attualissimo, e non solo per la rumorosa – e assai poco diplomatica – visita di Mike Pompeo (pronuncia: ppom-piio) a Roma. Eppure sono anche un argomento molto, molto antico, così come millenaria è la storia dell’una e dell’altra delle potenze coinvolte. E negli ultimi secoli tali rapporti hanno conosciuto più di un momento memorabile, come San Francesco Saverio, uno dei quattro padri fondatori dell’ordine dei Gesuiti, pagò con la vita, nel 1552, il tentativo di recarvisi per convertire i Cinesi al Cristianesimo.
Più fortuna di lui ebbe però un altro gesuita, il celebre Matteo Ricci, il più grande mediatore culturale della storia. Grande letterato e matematico, si recò in Cina nel 1582, e vi rimase sino alla morte, nel 1610, coperto di grandi onori, voluti dall’Imperatore in persona. E Matteo Ricci andò vicinissimo ad un successo che avrebbe probabilmente cambiato il mondo e la storia, la conversione di questo grande Imperatore e di tutto il suo popolo al cristianesimo. Per impedirlo, prendendo a pretesto problemi di rituale, ci vollero gli sforzi e i ricatti congiunti di quattro governi massonici d’Europa, quello spagnolo e quello francese, ma soprattutto quello portoghese con il marchese di Pombal, gran protettore dei mercanti di schiavi, e quello del regno di Napoli, guidato da Tanucci, maestro di combines diplomatiche e di complotti di corte.
Accadde così che Matteo Ricci non venne mai riconosciuto come l’eroe cristiano che avrebbe meritato di essere. Ma nel grande impero orientale, l’Impero di Mezzo, l’Impero attorno a cui tutto il mondo ruota, egli non è stato dimenticato. E la sua tomba si trova oggi nella sede ufficiale della scuola del partito comunista cinese.
Su questo sfondo secolare, arriva oggi a Roma, un Segretario di Stato americano che si è fatto precedere da una sorta di ultimatum alla Santa Sede, cui si tenta di “intimare” – come ha scritto un grande giornale romano – di non rinnovare gli accordi attualmente in atto con la Cina, che sono il più importante risultato di un lungo e complesso dialogo. Per tutta risposta, non solo il Papa ha fatto sapere che non lo riceverà, ma anche deciso di far partire proprio oggi – alla volta di Pechino – una delegazione vaticana incaricata di continuare il dialogo.
Non ci saranno però scortesie nei confronti della Repubblica stellata e del popolo americano, in schiacciante maggioranza cristiano. Non ce ne sarebbe ragione, e neanche convenienza diplomatica, perché chi è saldo nel proprio convincimento e forte delle proprie ragioni non ha da umiliare le sue controparti, anche quando queste hanno la goffaggine di voler pubblicamente imporre la propria linea. A ricevere il suo omologo americano penserà perciò il Cardinal Parolin, in un incontro che la stampa già prevede sarà “gelido”.
Che il fin de non recevoir vaticano di fronte alle pretese di Pompeo posso avere molta incidenza sui rapporti con gli Stati Uniti, è peraltro da escludere. Infatti, dire che Pompeo, da poco nominato segretario di Stato, in sostituzione di Bolton, rappresenti la posizione del presidente uscente, e che ha buone probabilità di essere riconfermato, sarebbe molto inesatto. La sua visione della realtà internazionale risulta – è facile notarlo e importante prenderne atto – fondamentalmente diversa da quella di Trump.
Pompeo tende a mettere lo scontro con la Cina su un piano ideologico, per il quale scontro egli non è peraltro culturalmente attrezzato. Egli cerca di applicare alla realtà presente slogan e luoghi comuni dell’epoca della guerra fredda, un’epoca non solo ormai tramontata, ma anche caratterizzata dal fatto che a scontrarsi erano allora due visioni diverse ed assolutamente inconciliabili dei fini della politica e dell’organizzazione sociale. Mentre oggi si tratta, tutt’al più, del diverbio tra due stati tra i quali è nato un problema di prestigio e di rango, nonché una questione di pique, ma i cui interessi economici sono solo in parte conflittuali. Anzi sono stati fino ad oggi fortissimamente complementari, e lo rimangono in larga misura
Il presidente uscente, a differenza di Pompeo, è un commerciante nato, ben consapevole del fatto che in Cina sono presenti fortissimi interessi americani, come del fatto che il mercato americano è assolutamente essenziale per la Cina. E se egli batte oggi la grancassa contro Pechino, è solo in funzione strettamente elettorale: ma Trump passerà probabilmente il giorno immediatamente successivo alla sua possibile ri-elezione ad un altro linguaggio e ad un altro comportamento, entrambi molto più moderati e tendenti ad un accordo con la grande potenza asiatica. A Trump, l’antiquato e maramaldesco messianismo anticomunista può essere utile solo da qui ai primi di novembre, durante una campagna in cui il voto per via postale è di fatto già cominciato. È solo provvisoriamente egli ha bisogno di Pompeo, per portare a se il voto di una minoranza di estrema destra il cui atteggiamento è assai diversa, all’opposto del suo pragmatismo, e al suo stesso carattere. Il giorno dopo le elezioni, sarà un altro giorno – come diceva Scarlett o’Hara –, e soprattutto un altro quadriennio. Ed assai probabilmente sarà il turno di un altro segretario di Stato,
Ciò non significa ovviamente che il fracasso provocato da Pompeo si spenga senza lasciare nessun risultato e nessuna traccia. Perché è inevitabile che a Pechino si ironizzi sottilmente sull’affermazione di Pompeo relativa al fatto la Chiesa Cattolica perderebbe autorità morale se non seguisse i suoi consigli. E poi, sempre da parte cinese, accade che qualche personalità assai influente lasci intendere, sia pure in termini assai diplomatici, che un intervento così grossolano del Segretario di Stato Usa non può che accrescere l’interesse dell’Impero di Mezzo ad avere “più intensi” rapporti con la Santa Sede.
Giuseppe Sacco