C’è inevitabilmente da riflettere su quanto una buona parte della classe politica italiana confermi una sostanziale “ignoranza” istituzionale. Ecco un altro governo che presenta proprie proposte di modifiche costituzionali. Cicero pro domo sua? verrebbe da chiedere considerando che, con il cosiddetto premierato, si vanno a toccare, anche formalmente, gli equilibri tra gli organi dello Stato già profondamente danneggiati nel corso degli ultimi tre decenni.

Sorvoliamo sul fatto che la proposta smentisce del tutto quel presidenzialismo che la Meloni ha continuamente esaltato con i suoi Fratelli d’Italia sin dalla nascita. Anzi, addirittura da quando era una ragazzina nell’MSI di Almirante. Il quale sosteneva la stessa aspirazione della P2: cioè, lo stravolgimento della Costituzione per darle una forte impronta autoritaria. E questo spiega l’analisi di Domenico Galbiati di qualche giorno fa quando esaminava la volontà di rivincita che anima gli esponenti del post neofascismo (CLICCA QUI).

Sorvoliamo pure sul fatto che il Governo Meloni, come molti dei più immediatamente predecessori nel corso dei 30 anni di bipolarismo, e conseguente svilimento del ruolo del Parlamento, ha uno spazio tale che, già nei fatti, siamo in pieno premierato di fatto. E ciò nonostante la realtà ci dica che i problemi non sono quelli della quantità di potere che l’Esecutivo riesce a sottrarre al Parlamento, e prova a sottrarre al Capo dello Stato, e in qualche modo a tenere a bada la magistratura, bensì quelli della qualità dell’azione di governo.

Da anni la “governabilità” l’ha fatta da padrona a spese della rappresentatività che la nostra Costituzione rinvia, in primo luogo, al Parlamento. Ma anche all’intero sistema della variegata articolazione della struttura dello Stato e del sistema delle autonomie regionali e locali. Nel corso dei decenni si è creata un’elefantiasi di ruolo, responsabilità e capacità di spesa a favore, da un lato, del governo centrale, dall’altro, delle Regioni. I contenziosi che impegnano la Corte costituzionale lo stanno a dimostrare fino a rappresentare la quota più rilevante dell’attività della Consulta. Il tutto a detrimento di quelle provincie e di quei comuni che rappresentano, ma solo in via teorica, il concetto della prossimità con i cittadini. Ciò perché, in realtà, è la partitocrazia a farla da padrona. Una partitocrazia che, più che mai, ha assunto le sembianze di una vera e propria cappa di piombo diretta a soffocare ogni istanza proveniente dalla società.

Sappiamo che la cultura della destra italiana, sin dal periodo post unitario liberale, ma soprattutto con il ventennio fascista, è stata soprattutto questo: governare a dispetto, e contro, ogni istanza popolare animata da spirito di solidarietà e d’inclusione. E per questo, allora come oggi, si evita di mettere mano ai veri problemi di una democrazia moderna che sono quelli del rispetto degli equilibri sociali ed istituzionali e si finisce per affidare ad un ristretto novero di persone e di gruppi d’interesse la guida di un intero paese. E’ più comodo proporre una cura verticistica dei fenomeni invece che delle cause di un oggettivo malessere che riguarda il nostro sistema democratico da oramai troppo tempo.

Indirettamente lo ha confermato Giorgia Meloni presentando l’idea del “premierato”. Lo ha fatto sorvolando su ogni considerazione dei ruoli e con la solita roboante retorica che, almeno a noi, non ci fa dimenticare la sostanziale mancanza di rappresentatività di un governo espresso da un voto cui ha partecipato meno della metà degli italiani aventi diritto. Nella presentazione di quella che è stata definita, addirittura, la madre di tutte le riforme, è stato sostenuto, tra le altre cose, che così finiranno i ribaltoni e i governi tecnici. Beata lei e la sua maggioranza che si abbandonano a queste speranze. Ignorando completamente, però, che ribaltoni e governo tecnici, cui non sono mancate partecipazione ed apporto da parte di larghe parti di quelli stessi che oggi fanno parte della maggioranza, non sono frutto del sistema costituzionale italiano, bensì dell’incapacità dei partiti e dei politici di affrontare in maniera convincente i problemi del Paese.

A fronte di tanto desolante mancanza di analisi e proterva continuità nel volere lasciare il sistema nelle condizioni in cui è, se non addirittura aggravarle, c’è solo da ricordare che non è passata finora una sola riforma costituzionale tra quelle proposte da un governo, l’ultima fu quella di Matteo Renzi sull’abolizione del Senato. A conferma che quando le cosiddette riforme sono caratterizzate da uno spirito impositivo, giocate a colpi di maggioranza e carenti di un pieno coinvolgimento dell’intero Paese non è affatto detto che trovino il consenso della maggioranza degli italiani.

Tra l’altro, stiamo parlando di una proposta che, ad una prima lettura, appare davvero strampalata e del tutto inedita per le democrazie parlamentari dell’Occidente.

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