La sentenza della Corte in ordine all’aiuto al suicidio – al di là dell’argomento specifico – ci mette sull’avviso: siamo in grado di affrontare le provocazioni verso cui l’umanità si sta incamminando, in una fase storica che ci porta, ogni giorno di più, dentro il cuore di una sfida scientifica e tecnologica che mette in discussione la nostra consapevolezza di chi sia effettivamente l’uomo, di quali siano davvero il senso ed il valore della vita, il significato della storia, dell’evoluzione, del progresso, dello sviluppo pieno delle nostre potenzialità?
E’ comprensibile che vi siano singole condizioni estreme di sofferenza inaudita, di solitudine, di abbandono che inducono a chiedere la morte.
Non è comprensibile – se non come segnale di una fragilità preoccupante – il “cupio dissolvi” con cui l’eutanasia viene invocata e rivendicata addirittura come “diritto”. Cioè, come una dimensione che è ritenuta originariamente costitutiva dell’essere umano, il quale, dunque, effettivamente “e’”per la morte, non per la vita?
Se accendiamo al concetto che la morte sia la via di fuga sempre disponibile tanto che la legge la predispone e la garantisce e, dunque, la legittima quale epilogo possibile dell’esperienza di ciascuno a fronte di una condizione ritenuta insopportabile, non viene compromesso ed avvelenato radicalmente il primordiale, incondizionato sentimento di gratitudine, di attesa, di speranza che accompagna il sorgere della vita?
La questione va oltre le singole leggi – divorzio, aborto, ora l’eutanasia, per citare solo le pietre miliari di questo percorso – che si sono via via succedute in una lunga stagione di enfatizzazione esasperata di una cultura ferocemente individualista che, ad un tempo, prende e dà forma ai cosiddetti “diritti civili”.
Siamo certi di essere nelle condizioni morali e culturali più appropriate per affrontare, governandole secondo un ordine di valori che scientemente facciamo nostri, oltre le rivoluzioni della genetica e delle neuroscienze, gli scenari incalzanti del cosidetto “trans-postumano”, l’avventura dell’ intelligenza artificiale, della robotica umanoide, delle manipolazioni genetiche e del potenziamento cognitivo, dell’interpolazione uomo-macchina? Ce la faremo a colmare il gap che ogni giorno si dilata tra potenzialità tecno-scientifiche a nostra disposizione e quella consapevolezza etico-antropologica che matura più lentamente eppure è indispensabile per orientarle, evitando di andare a sbattere contro un muro?
Attenti che se non ce la facessimo, il “demone” della tecnica ci prenderebbe la mano ed allora altro non ci resterebbe che la disumana, idolatrica consacrazione al suo potere che si intuisce, ad esempio, in una visione apocalittica alla Casaleggio.
Non dobbiamo piuttosto prendere coscienza di alcuni cortocircuiti concettuali che non possiamo nascondere sotto il tappeto e dobbiamo tutti, credenti o meno, guardare negli occhi? Come consideriamo o meglio come sperimentiamo la vita? Come un dono – sia pure del Creatore o della natura – che suscita un sentimento di gratitudine o piuttosto come un possesso da rivendicare nella solitudine autoreferenziale della propria ed esclusiva singolarità? Siamo certi che l’autodeterminazione, la facoltà di decidere in proprio – da sé e per sé- sia esattamente la stessa cosa della libertà e ne esaurisca il significato e la potenzialità straordinaria?
Intendiamo progettare la società in cui vivere il nostro domani e le sfide comunque entusiasmanti che ci attendono, nel segno dell’ algida cultura dell’individualismo o piuttosto nel segno della reciprocità solidale evocata dalla cultura della “persona” come soggetto di relazioni?
Tutto ciò ci riguarda come cattolici, ma perfino di più come cittadini, senza altra qualificazione se non l’essere membri attivi di una comunità nazionale che, per essere tale – piuttosto che un cumulo indistinto di monadi separate e distinte, sostanzialmente impermeabili l’una all’altra – deve dotarsi di una consapevolezza condivisa in ordine ai criteri di valore ed agli orientamenti morali su cui fondare la propria convivenza.
Ogni qual volta i cattolici parlano, c’è l’illuminato libero pensatore di turno che o vorrebbe sospingerli in sacristia oppure evoca, scandalizzato, lo spettro dello “Stato etico”. Corbellerie strumentali.
Né abbiamo mai preteso di imporre il nostro orientamento, né accettiamo di essere esclusi pregiudizialmente da quel “discorso pubblico” con cui incessantemente – attraverso un percorso di reciproca legittimazione – le diverse appartenenze culturali che concorrono al pluralismo del contesto civile rielaborano e via via costantemente aggiornano la concezione dell’uomo, della vita e della storia che rappresenta la “cifra” di ogni fase storica, l’orizzonte concettuale e morale in cui operiamo.
Siamo, piuttosto, convinti – ed anche la sentenza della Corte di questi giorni rafforza questa consapevolezza – di poter recare a questo confronto un concorso del tutto originale, irrinunciabile e necessario grazie alla cultura “personalista” che ci appartiene.
Sappiamo di avere un terreno solido su cui fondare la nostra azione, rappresentato dalla Dottrina Sociale della Chiesa e, ad un tempo, dalla Carta Costituzione cui la cultura dei cattolici-democratici ha dato un contributo essenziale. Sappiamo anche di non aver a sufficienza compreso e messo a frutto la straordinaria fecondità di questo enorme patrimonio.
Eppure, vi sono state stagioni in cui i cattolici impegnati politicamente sapevano leggere ed anticipare i segni del tempo con una freschezza culturale che rappresentava una ricchezza per lo stesso mondo ecclesiale. A maggior ragione dobbiamo darci una mossa.
C’è una sproporzione abissale tra il patrimonio dottrinale, morale, culturale cui possiamo attingere – e dunque la responsabilità che, anche per noi, ne consegue – e l’inerzia colpevole con cui, per lo più, ci crogioliamo nei nostri rispettivi recinti di appartenenza.
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi, la vicenda di questi giorni dovrebbe averli finalmente dissolti.
Anche in vista di un impegno che tocca sì finalmente al Parlamento, ma cui può e deve concorrere un libero confronto che, in ordine al tema posto dalla Consulta, mobiliti le istanze morali, le culture, le competenze professionali che arricchiscono il pluralismo vitale del nostro Paese.
Un’ultima osservazione concerne una domanda ed un’invito che dovremmo rivolgere a chi non la pensa come noi e saluta con grande favore la sentenza della Consulta come via libera finalmente concessa all’eutanasia.
Soprattutto coloro tra questi il cui cuore batte a sinistra perché sinceramente tengono al valore della libertà, della giustizia sociale, della solidarieta’, della democrazia, dovrebbero riflettere circa il fatto che un contesto civile disgregato, nel culto dell’individualismo, quasi si trattasse di un brodo primordiale atomizzato, alla lunga – anzi prima che poi, talche’ in buona misura è quel che già oggi succede – e’ destinato a distruggere esattamente i valori di cui sopra.
Domenico Galbiati

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