Quando il partito socialdemocratico, nelle politiche del 1953, dimezzò i suoi voti, Giuseppe Saragat – dieci anni dopo Presidente della Repubblica – se la prese con il “destino cinico e baro”.
In altri termini, un leader prestigioso del movimento socialista, protagonista con Sandro Pertini della Resistenza, pensava che gli elettori, branco di incapaci e di incolti, avessero sbagliato. Ora lo sostiene anche Calenda che argomenta la sua posizione sostenendo che oggi il consenso elettorale si esprime “contro”, secondo la logica perversa del cosiddetto “voto utile”, oppure si vota seguendo la “moda” di turno. E fin qui si può convenire purché si ammetta che le motivazioni, che pur Calenda adduce, sono sovrastate soprattutto da una logica maggioritaria che stringe il voto in una tenaglia bipolare. La quale lo rende, per un verso, se non scontato, stretto in una alternativa obbligata che non riconosce quell’articolazione ampia di possibili opzioni che dovrebbe corrisponde alla ricchezza plurale di una società moderna ed avanzata.
Per altro verso, lo trasforma in una sorta di oggetto contundente da scagliare contro il “nemico”, cosicché andare alle urne rischia di diventare uno sfogo sterile di rabbie mal digerite e, per di più, inefficaci. La questione, dunque, è di carattere “sistemico” e tale profilo non può essere eluso, scaricandolo sulla presunta dabbenaggine degli elettori.
Del resto, cosa vuol dire che l’elettorato sbaglia? Non si fa sfoggio, in tal modo, di una concezione supponente ed elitaria della politica? Ma soprattutto, chi pronuncia questa sorta di anatema cade in una inferenza prettamente ideologica. Chi decide secondo quali parametri si può dire che l’elettorato abbia votato bene o male? Di fatto, si butta lì un giudizio fondato su criteri di valutazione assunti in modo più o meno apodittico, cioè largamente soggettivi e tali da poter essere contraddetti da chi, riferendosi a tutt’altri principi, pur giunga alla stessa imputazione nei confronti degli elettori.
In effetti, è per definizione che non si può sostenere che l’elettorato sbagli. Non solo perché la legge dei grandi numeri sostanzialmente garantisce che il suo pronunciamento, qualunque esso sia, abbia, in ogni caso, un senso ed esprima un indirizzo. Ma anche nella misura in cui il responso delle urne è paragonabile ad una risorgiva, fontanella o sorgente spontanea che, in determinate condizioni, porta allo scoperto una falda acquifera che viene da lontano, ha scavato meandri carsici nel sottosuolo e fornisce un’ acqua, la quale esaminata attentamente dà puntualmente ragione della composizione geologica dei terreni che ha attraversato. Che sia limpida e cristallina, torbida o limacciosa è in ogni caso un’acqua sincera e così il voto che non attesta, hic e nunc, qualcosa di vagamente aleatorio, bensì rende conto di processi che sono sedimentati nel tempo più di quanto non appaia.
Non basta rilevare la volubilità dell’ elettorato e la transitorietà delle leadership. Occorre risalire a monte per giungere, al di là ed oltre il fenomeno, alla causa. Dal sintomo all’etiologia della sindrome.
Domenico Galbiati