Il concetto di telelavoro, o smart working, per usare un termine molto in voga al momento, è tutto fuorché nuovo o innovativo.
Da moltissimi anni, i cugini americani si avvalgono di questo strumento nelle loro organizzazioni, specialmente le pioniere della mitologica zona della Silicon Valley. Non è certo estranea nell’immaginario comune la visione, incoraggiata da film e serie tv d’oltreoceano, del giovane e brillante genio che batte furiosamente sulla tastiera del computer in calzoncini e maglietta, comodamente spaparanzato in un bar a bordo spiaggia, sorseggiando caffè da un’enorme tazza. Spesso i lavoratori sospirano di desiderio davanti a questo apparentemente idilliaco concetto di lavoro a distanza, trincerati dietro le loro scrivanie, circondati da colleghi urlanti, dopo aver diligentemente timbrato il cartellino che attesta la loro presenza fisica in azienda.
Sarebbe ingiusto negare che anche nel nostro paese, alcuni timidi passi verso la sperimentazione dello smart working siano stati compiuti, specialmente per merito delle multinazionali, che hanno importato i loro paradigmi organizzativi nelle loro sedi italiane. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle aziende di impianto più classico, di PMI, di studi professionali, ha sempre guardato questo strumento di lavoro con un certo sospetto, al punto da scoraggiarne, quando non proprio vietarne, l’uso. Come controllo la produttività del mio lavoratore, se non posso sincerarmi della sua dedizione all’incarico tramite una costante supervisione? Chi assicura a me, datore di lavoro, che l’apparentemente innocente richiesta di lavorare da casa non nasconda un recondito desiderio di oziare? Il rapporto fiduciario che intercorre tra lavoratore e datore di lavoro è uno splendido concetto astratto, perfetto per i brindisi natalizi e per le comunicazioni interne dell’ ufficio Risorse Umane, ma trova scarsa applicazione nella vita quotidiana di un’azienda in cui, di fatto, regna una certa diffidenza, equiparabile a quella del maestro di scuola nei confronti di studenti potenzialmente indisciplinati. Non metto in dubbio la tua buona fede e la tua abnegazione…finché posso averti sotto gli occhi.
Ma niente poteva far ipotizzare l’inimmaginabile, l’impossibile: una crisi globale che ha reso il luogo di lavoro il ricettacolo primario di diffusione di un virus potenzialmente mortale. L’ufficio, da tappa obbligata nella vita dei lavoratori, si è trasformato in un posto da evitare, possiamo dire senza rischio di apparire inappropriati, ‘come la peste’.
In questo delicato momento storico, lo smart working appare quindi all’orizzonte come un’ancora di salvezza, lo strumento avveniristico che, da esotico e inaffidabile, rende possibile mantenere in piedi attività che, in sua assenza, non potrebbero essere svolte, con conseguenze catastrofiche. Aziende che fino a ieri negavano al lavoratore la possibilità di svolgere la sua prestazione tramite strumenti telematici, imponendogli di coprire la sua necessità di assentarsi dall’azienda anche per poche ore con ferie e permessi, oggi accolgono a braccia aperte questa modalità di lavoro e si prodigano affinché la maggior parte dei propri dipendenti possa avvalersene.
Lieto fine di una breve storia? Il telelavoro, salvando la produttività in crisi, si affranca agli occhi di aziende e lavoratori e soppianta la presenza fisica in ufficio? Non così in fretta. Ogni medaglia ha il suo rovescio, e lo smart working non fa eccezione. Questa comoda modalità presenta indubbiamente incommensurabili vantaggi, ma anche alcune criticità che devono essere considerate e soppesate.
Potrebbe mai diventare un sostituto integrale della presenza del lavoratore in azienda, per alcune figure professionali?
Esaminiamo le tante ed evidenti criticità dello smart working. La più banale, spesso oggetto di vignette e video umoristici, è l’inadeguatezza spesso invalidante degli strumenti telematici di supporto. Connessioni sovraccariche, immagini sfocate delle riunioni on line, interruzioni a volte irreversibili rendono non facilissimo il contatto con colleghi e consulenti, con il risultato spesso frustrante di dover aggiornare la riunione avendo concluso poco o niente. Al contempo, la mancanza della presenza fisica di persone nello stesso spazio causa un appiattimento delle relazioni umane, con il conseguente impoverimento della qualità delle idee. Il confronto faccia a faccia è infatti un utile stimolante della competitività, fa scaturire l’animo guerriero del lavoratore e lo spinge a dare il meglio e il massimo in presenza di colleghi e superiori. Tale effetto positivo non può che essere mitigato dalla distanza fisica e dalla rassicurante presenza di uno schermo che, all’occorrenza, può essere anche spento!
La paura del datore di lavoro che il lavoratore approfitti della distanza per essere meno produttivo è senza dubbio infondata, dato che le deadline e i risultati debbono comunque essere garantiti, senza contare la possibilità di monitorare gli accessi del lavoratore sulla piattaforma di lavoro per accertarsi dell’effettivo numero di ore di produttività. Tuttavia, è il lavoratore stesso a trovare spesso difficile, snervante e frustrante dedicarsi ai suoi compiti con rigorosa organizzazione al di fuori dell’ufficio. L’ambiente sobrio, privo di distrazioni, il confronto con colleghi impegnati, stimola il desiderio di dedicarsi unicamente ai propri progetti, interrompendo il flusso produttivo solo per una fugace pausa caffè o per la meritata pausa pranzo. E, talvolta, neanche per quella. In un ambiente familiare, confortevole e soprattutto pieno di tentazioni, quali la cucina, la televisione, i suoni provenienti dalla strada, un comodo letto…il lavoratore può venir sopraffatto da stimoli esterni che lo spingono verso l’inferno: la procrastinazione. Il rigore della routine professionale si spezza ed inizia una distruttiva spirale di ‘lo faccio dopo’. Per di più, consapevole di star trascurando i propri doveri, il lavoratore si sentirà colpevole ed inadeguato, diventando sempre meno produttivo e sempre più incostante ed annoiato. Una trappola mortale. Certo, non per tutti è così, ma la percentuale di rischio è alta.
Un altro fattore già accennato, ma che vale la pena approfondire, è l’importanza del contatto umano. Qualsiasi lavoratore intervistato sulla qualità delle sue relazioni personali sul luogo di lavoro, risponderà invariabilmente che detesta la maggioranza dei colleghi. Comprensibile, dato che i colleghi non si possono scegliere. Tuttavia, quando viene organizzato un aperitivo, una cena aziendale, quando si fa una bella battuta, è difficile trovare qualcuno che si rifiuti ostinatamente di partecipare. Perché? L’essere umano è mediamente un animale sociale, è nel branco che trova la sua identità. La logica di competizione che scatta tra simili fa sì che il lavoratore sia portato a presentare in ufficio la miglior versione di sé: si vestirà bene, valorizzerà le sue idee, valuterà i suoi risultati paragonandoli a quelli degli altri e tenderà a voler occupare un posto migliore nella sua gerarchia sociale. Cosa accadrebbe se rimuovessimo questa cornice sociale e isolassimo il nostro lavoratore? Privo di stimoli esterni, scivolerebbe nell’asocialità e nell’apatia, rischiando di compromettere anche i propri rapporti fuori dall’ufficio. Del resto, un essere umano impiegato a tempo pieno trascorre non meno di nove ore al giorno sul posto di lavoro, inclusa la pausa per il pranzo. La maggior parte della giornata se ne va in ufficio. Come reagirebbe il lavoratore a nove ore di isolamento coatto quotidiano? Le cronache del Coronavirus ci confermano: non bene.
Un’ulteriore conferma di questa tendenza alla socialità ci viene dal fiorire degli spazi di coworking. Tornando al nostro immaginario genio informatico losangelino, spesso lo vedremo in compagnia della sua tazza di caffè perché il suo luogo di lavoro è un affollato bar. Per fornire ai cosiddetti ‘nomadi digitali’ uno spazio che gli consenta di uscire dal carcere della propria casa, sono nati moltissimi spazi pseudo-ufficio in cui gli smart workers possono rifugiarsi in compagnia dei propri simili e restaurare una parvenza di routine aziendale. Il controsenso della transizione del lavoratore da azienda, a casa, a spazio di coworking, non necessita di spiegazioni.
Si potrebbe approfondire questa tematica all’infinito, ma già le linee qui tratteggiate evidenziano i macro vantaggi e i macro svantaggi del famigerato telelavoro.
È una modalità che consente l’accesso a chiunque, più o meno da qualsiasi luogo dotato di una connessione wi-fi. È perfetto per consentire ad un lavoratore impossibilitato non a lavorare, ma a recarsi in ufficio, di svolgere la sua prestazione, con il duplice vantaggio di non ritardare le proprie consegne e rallentare eventuali di colleghi di team e di permettergli al contempo di conservare i propri permessi e le proprie ferie. Penso al caso di scuola del genitore con un figlio febbricitante: la sua presenza in casa è assolutamente necessaria, ma la sua capacità di svolgere la prestazione non ne risente, e sarebbe uno spreco rinunciare al lavoro di una risorsa perfettamente in grado di essere produttiva.
Anche esaurita la crisi, le aziende avranno familiarizzato a tal punto con lo smart working, da essere in grado di incorporarlo nei propri paradigmi organizzativi, opportunamente regolamentato e declinato secondo le logiche e le dinamiche interne, non come integrale sostitutivo, ma come utile suppletivo in caso di necessità.
Ilaria Diotallevi