Il precedente articolo pubblicato da Avvenire il 30 marzo scorso ( CLICCA QUI ) ha evidenziato che le modifiche nel tempo delle norme procedurali non sono state utili ad accorciare i tempi di durata del processo. Va precisato, per amore di verità, che la lentezza non è caratteristica solo dei procedimenti giudiziari. Purtroppo in Italia è proprio della pubblica amministrazione essere spesso disciplinata nei propri compiti da regole macchinose da applicare alla lettera; si direbbe non tanto per soddisfare le esigenze dei destinatari, quanto piuttosto per esonerare l’autore da ogni responsabilità (la chiamano “burocrazia difensiva”). Di più, nel recente discorso sull’anno giudiziario, il Primo Presidente della Corte di Cassazione ha affermato che in relazione al sistema giustizia le continue modifiche normative e organizzative, «a volte, invece di risolvere i problemi, hanno finito per complicarli».

Di suo, Giuseppe De Rita sul Corriere della sera dell’1 marzo scorso ha sottolineato che le dure regole di gestione del Recovery plan legano i progetti innovativi e preliminari a rigorose riforme strutturali; senza di esse non è consentito di lanciarsi in creatività progettuali e di ottenere il previsto sostegno finanziario dalla Commissione Europea.

Pertanto, oggi come oggi e più in generale, al legislatore è richiesta una conversione culturale che ponga come obiettivo di attuare in concreto, all’insegna del massimo realismo, i valori e i principi che stanno alla base dell’originario impianto giuridico e delle sue regole fondamentali: è quindi diventato imprescindibile ripartire dalla Costituzione e dalla individuazione dei bisogni comuni rimasti insoddisfatti. Con riferimento alla giustizia, «In una parola, la Costituzione richiede che il processo sia giusto e breve»: così, dopo aver richiamato l’art. 111, la ministra della giustizia Marta Cartabia nell’esposizione alla Camera delle “Linee programmatiche sulla giustizia” il 14 marzo scorso.

A giudicare da quanto è stato reso noto su Il foglio di martedì 9 marzo 2021, l’importante svolta nella pubblica amministrazione sarebbe possibile e ormai imminente. Ne è convinto il ministro Renato Brunetta – ma appare condividerne il pensiero anche il ministro dell’economia e delle finanze Daniele Franco – quando afferma che, per superare la cronica lentezza burocratica, occorre una terapia choc con assunzioni a tempo determinato e soprattutto da fare in tempi rapidi: via i concorsi tradizionali in favore di un più rapido reclutamento di esperti e di professionisti con adeguata remunerazione di mercato e con contratto a tempo determinato.

Quanto ai soggetti da reclutare, partendo dalla constatazione che nella situazione italiana gli under 35 rappresentano appena il 2,4% dell’esercito degli statali, si dovrebbe puntare soprattutto sul reclutamento di giovani under 35, appoggiandosi agli albi professionali di chi ha superato l’esame di stato; quanto ai professionisti senz’albo, adoperare i sistemi di ricerca tipici delle grandi imprese. Tenendo inoltre conto che nel corso dei prossimi 2/3 anni circa 300.000 dipendenti statali raggiungeranno l’obiettivo della pensione, i giovani assunti per attuare il recovery «potranno avere un’agevole via d’accesso alla stabilizzazione prima della scadenza del piano europeo fissata al 2026, da finanziare con fondi ordinari del bilancio statale».

Come si vede, è stato prospettato un cambiamento incisivo; il presidente Draghi in occasione della firma del patto per l’innovazione del lavoro pubblico e della coesione sociale (10 marzo scorso) ha opportunamente sottolineato che «il buon funzionamento del settore pubblico è al centro del buon funzionamento della società».

Le parole si attagliano puntualmente all’istituzione giustizia, in ordine alla quale vi è da dire che occorre fare molta strada per ottenere il “buon funzionamento”.

L’individuazione delle disfunzioni è ormai risalente nel tempo. Oltre alla già segnalata relazione della ministra Severino, va citata in proposito la “Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2011”, tenuta il 26 gennaio 2012 dal Primo Presidente della Cassazione Ernesto Lupo.

Dopo avere ricordato che i tempi per la definizione dei giudizi erano mediamente 7 anni nel settore civile e quasi 5 anni nel penale, il dott. Lupo precisava che, alla fine del 2011, i magistrati risultavano oberati da ruoli pesantissimi: su un organico nazionale di 10.109 posti, il personale in servizio era pari a 8.734 con un deficit quindi di 1.375 posti; inoltre la domanda di giustizia era così aumentata da aggravare ancora di più la sproporzione fra le risorse dell’apparato giudiziario (numero dei giudici e del personale ausiliario; mezzi, mobili e immobili e loro disposizione) e il numero dei processi da trattare e decidere.

In questa situazione, per rispondere concretamente alle pesanti carenze di personale e di mezzi, sarebbe stato necessario – come afferma il presidente Lupo – risolvere previamente gli evidenti problemi di maggiori spese per le finanze pubbliche. Il che non è avvenuto.

La relazione sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2020, a oltre 9 anni di distanza, ha confermato infatti che l’indicato deficit delle piante organiche è tuttora presente con numeri imponenti: quanto ai magistrati ordinari, a fronte di un organico complessivo di 10.751 posti, sono 1.313 i posti vacanti negli uffici giudiziari; la magistratura onoraria è composta da 1.169 giudici di pace a fronte di un numero molto al di sotto della pianta organica che comprende, oltre ai giudici di pace, i giudici onorari di tribunale, i giudici ausiliari di corte d’appello, i viceprocuratori onorari e infine i giudici ausiliari di corte di cassazione addetti alla sezione tributaria. Per gli organici del personale amministrativo addetto agli uffici giudiziari, si registra una percentuale di scopertura nazionale del 26,19% (43.304 posti in pianta organica contro solo 32.216 presenti). L’età media del personale è sempre molto elevata (54 anni).

Ecco perché diventano inderogabili – e adesso sono resi possibili dal Recovery plan – i rimedi straordinari preannunciati dai ministri Brunetta e Franco. D’accordo naturalmente che, come suggerisce la professoressa Cartabia, prima ancora delle innovazioni occorre valutare quanto dell’esistente merita di essere salvato; in particolare è davvero urgente che riceva piena realizzazione “l’ufficio per il processo” introdotto dall’art. 50 del decreto legge 24 giugno 2014 n. 90.

La norma, condivisa e accolta con favore, è nata dalla diffusa consapevolezza, che per ridurre la durata dei processi, è necessario affiancare i magistrati con strutture di assistenza diretta e con strumenti organizzativi in grado di incidere sull’efficienza degli uffici. A motivo di ciò, è prevista la forte immissione di personale tecnico che dia impulso – con la collaborazione di tutti gli interessati – all’utilizzazione delle risorse informatiche, dello sviluppo tecnologico e dei progetti di innovazioni negli uffici giudiziari. Quanto agli addetti agli uffici del processo, ad essi sono affidati i compiti di collaborare allo studio delle controversie e della giurisprudenza pertinente, di predisporre le bozze di provvedimenti, con una continua e ampia collaborazione con il magistrato in un’ottica di accelerare al massimo i tempi della decisione.

Parlando di disfunzioni, non si può non occuparsi dei processi pendenti e dei risarcimenti previsti dalla legge Pinto per l’irragionevole durata.

Nell’esporre ai Senatori le linee programmatiche il 18 marzo scorso, la ministra Cartabia ha precisato che i ritardi nella giustizia non soltanto scoraggiano gli investimenti ma importano anche dei gravosi costi: l’anno scorso per i risarcimenti previsti dalla legge Pinto sono stati pagati oltre 105.000.000,00. Inoltre, come ho già ricordato nel precedente articolo, «nell’anno 2017 le cause civili a rischio Pinto nei tribunali italiani erano 450.000 e diventavano circa 680.000 se si sommano le ultra biennali giacenti in appello e le ultra annuali della cassazione».

Una giacenza patologica che, come si vede, produce essa stessa la dilatazione dei tempi del processo e pertanto non può essere ignorata ulteriormente, anche per non incidere ancora più pesantemente sul bilancio dello Stato.

L’eliminazione dei c.d. “arretrati” è pertanto un obiettivo da realizzare senza indugio. Tenuto conto che per accedere ai fondi previsti dalla Commissione Europea, le misure da deliberare, oltre ad essere “mirate dove serve realmente”, devono essere temporanee, con termini di tempo molto ben calcolati e assolutamente non prorogabili (ciò che – come si è visto – non era accaduto con le precedenti “sezioni stralcio”). È stato autorevolmente detto che le nuove misure fallirebbero lo scopo, «se finissero con un onere permanente sul deficit»: così il vicepresidente della Commissione Vaidis Dombrovskis nell’intervista rilasciata al Corriere della sera il 4 marzo 2021. In questo contesto si può agevolmente prevedere che, anche sul tema della giustizia, sarà particolarmente severo, ormai nei prossimi giorni, l’esame della Commissione Europea.

In conclusione, la carenza degli organici e l’impellente necessità di smaltire gli arretrati meritano di essere affrontati e risolti in via prioritaria. Le relative misure devono essere serie, cioè idonee a generare una giustizia meno lenta e meno costosa, insomma idonea ad assicurare il “buon funzionamento” del servizio giustizia: «il segreto del cambiamento è concentrare tutte le energie non nel combattere il vecchio ma nel costruire il nuovo» (Socrate).

Benito Perrone

 

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