Sgangherato il dibattito, sgangherati i protagonisti politici, accecata la visione istituzionale: questo era il mio punto di vista , meno di quattro anni fa, nell’accesa discussione sulla riforma della Costituzione, quando chi imbracciando un bazooka, chi voltando lo sguardo dall’altra parte,  decretava la condanna a morte del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Il CNEL.

Povero CNEL, non ha mai avuto vita facile. I suoi schemi di “osservazioni e proposte” (cioè, il suo modo di esprimersi, di esercitare il proprio ruolo) hanno lasciato orme profonde in terreni sociali induriti dallo scontro degli interessi; sono stati saccheggiati, letteralmente, e usati per farsi belli da parte di personale politico con pochi scrupoli. Chi ricorda, ad esempio, la prospettazione fatta da Romani, tuttora insuperata, della relazione tra formazione lavoro? Ha dato pareri, pochi, perché la funzione di consulenza assegnatagli dalla Costituzione nei confronti delle Camere e del Governo raramente è stata attivata. Nonostante, la pomposità, sul lato legislativo, dei regolamenti parlamentari, minuziosi nel tracciare un percorso istituzionale che non è praticamente mai iniziato. L’esercizio dell’iniziativa legislativa, poi, è stato compresso per propria volontà, ancorché la Costituzione fosse chiara nel conferirgli un ruolo attivo nella elaborazione della legislazione economica e sociale.

A parte definizioni irridenti (è un cimitero degli elefanti; è nato morto; è il buen retiro di dirigenti sindacali pensionati) uno sforzo serio di collocazione funzionale del CNEL nei principali procedimenti di formazione delle decisioni pubbliche in materia economica e sociale non è mai stato compiuto, neppure dalla dottrina. Con l’eccezione di un valoroso funzionario del Senato, Silvio Benvenuto, e di un dirigente della Camera Mauro Stramacci, pochi sono stati i costituzionalisti ad avere il coraggio di esaminare le ragioni del fallimento, della caduta in desuetudine di un organo di rilievo costituzionale, come è tecnicamente il Cnel.

Eppure, l’Assemblea Costituente aveva compiuto un imponente sforzo di mediazione. Tenuta, dalla aspettativa democratica della neonata Repubblica italiana, ad allontanare anche il più lontano sospetto di tenere in piedi qualche rimembranza organizzativa di tipo corporativo, ma anche sollecitata da una domanda specifica proveniente da sinistra (Di Vittorio, già in sede di esame dell’articolo 37, successivamente divenuto l’articolo 41 della Costituzione, aveva proposto l’inserimento di un “consiglio nazionale del lavoro”) e da un’altra, politicamente più larga di istituire un “consiglio economico”, alla fine aveva fatto nascere “il consiglio nazionale dell’economia e del lavoro”  collocandolo tra gli organi ausiliari, come aveva auspicato il Presidente della Commissione per la Costituzione, Ruini. Il quale, testualmente, dando prova di equilibrio e capacità di mediazione politica aveva detto: “La proposta dell’onorevole Di Vittorio è infatti che del Consiglio del lavoro facciano parte tutte le categorie produttive; è lo stesso concetto su cui è basato il sistema del Consiglio economico; i due temi devono dunque essere considerati unitariamente”.

Vero che la legge di attuazione del Cnel arrivò solo nel 1957 (ma  un anno in meno era servito per avviare la Corte Costituzionale, e altri tredici sarebbero trascorsi per avviare le Regioni, per non parlare di ciò che ancora deve essere attuato, articoli 39 e 49 della Costituzione), lascio qui il tema, pur appassionante, della ricostruzione storico istituzionale di questo Istituto, per passare ad una esposizione più pratica, più in grado di spiegare perché il disegno costituzionale sia naufragato in questo ambito.

Io sono stato al Cnel, da funzionario, nella seconda metà degli anni 70 e me ne sono innamorato. Con i vari Valitutti, De Sossi, Comes e con colleghi che come me sarebbero diventati funzionari parlamentari (ma Vegas è stato anche senatore e rappresentante di governo e presidente della Consob, mentre Palanza è stato anche Consigliere di Stato e Presidente di un’autorevole fondazione), ciascuno con il proprio bagaglio di conoscenze e di intenzioni, ci siamo interrogati durante e dopo il passaggio nel Cnel sul perché non si consolidasse nel suo ruolo istituzionale.

Do la mia risposta. Molto oltre il pressappochismo dei giudizi che sarebbero venuti anche in anni recenti, la ragione preminente è costituita dalla precisa volontà delle parti sociali di trattare separatamente con il Parlamento e il Governo. Di far valere la propria rappresentatività politica direttamente in sede di mediazione politica delle scelte da compiersi sia in sede legislativa che nelle altre sedi proprie del confronto politico.

Sindacati, tutti, organizzazioni imprenditoriali, tutte, rappresentanti delle professioni, cioè la stragrande maggioranza dei componenti del Consiglio nazionale dell’economia del lavoro hanno inteso giocare una partita propria che non fosse mediata precedentemente dentro questo organo di rilievo costituzionale. In ogni fase delle relazioni industriali di questo paese, mai il Cnel si è seduto ad un tavolo di trattativa in nome proprio, cioè in attuazione di un precedente bilanciamento degli interessi sociali ed economici.

Questa la pura e semplice verità. Che nel Cnel siano passati personaggi che hanno fatto la storia delle relazioni industriali del Paese, da Storti a Carli, a Lama, a  Benvenuto, a Boni, a Savona, a De Rita e a tanti altri non è servito a nulla. Vi sono passati dopo che si era esaurita la propria rappresentatività nelle organizzazioni di appartenenza. Chi non ricorda i tentativi fatti da questi grandi ex makers delle relazioni industriali di trovare uno spazio per il Cnel è ingeneroso. Chi non dia atto che la costituzione materiale del paese ha indirizzato il ruolo del Cnel in una funzione micro ausiliaria non ne conosce la storia.

Il Cnel, grazie anche alla componente degli esperti, ha costituito un serbatoio di conoscenze pregiate in ambito economico e sociale, ed ha svolto un ruolo efficiente, per esempio, nella definizione dei patti territoriali, nell’anagrafe dei contratti collettivi nazionali. A ricordarlo, viene da sorridere. Figuriamoci se qualcuno s’è fatto intimidire da una funzionalità considerata marginale o burocratica.

Per la sua funzione di organo ausiliario del Governo e delle Camere, invero, un ruolo verso questi organi avrebbe potuto svolgerlo, quello di un consulente istituzionale retto da leggi, cioè in sé meno cagionevole nella capacità di resistenza agli interessi organizzati, quelli che comunque hanno cercato e trovato accesso nell’ambito delle politiche pubbliche.

Ma questo non è stato voluto né dal Governo né dalle Camere. Né da altre istituzioni molto influenti nei procedimenti di formazione delle politiche pubbliche, dagli istituti di previdenza alla Banca d’Italia, dalle banche alle industrie auto rappresentate, dai settori più vari dell’economia nazionale alle Università pubbliche e private  Non che non se ne sia parlato. Quando si trattò, per esempio, di rafforzare il Parlamento nei suoi apparati di ricerca, di studio, furono anche prospettate ipotesi di qualche forma di collaborazione, come già avveniva con la Corte dei conti e con la stessa Banca d’Italia.

Si sviluppò una lotta di tutti contro tutti, e tutti persero. Il Paese perse. Abortirono progetti affascinanti di assistere il processo di formazione delle leggi con meccanismi valutativi, tanto per spiegarsi, paragonabili per efficienza e proiezione in avanti ai modelli econometrici delle maggiori istituzioni finanziarie. Consentitemi un breve inciso. Il professor Vineis ha ragione di dire che “le decisioni impellenti di sanità pubblica devono essere indipendenti dagli interessi commerciali di questo o quel paese o di alcune industrie”. Ma da chi si approvvigionano allora, Governo e Parlamento, per fare le leggi, auspicabilmente ciascuno nel proprio ruolo? Da un Cnel mutilato? Da apparati legislativi a loro volta stremati da visioni “interessate”, frazionali,  all’interno stesso delle Camere?

Se non si è in grado di dare risposte a questi interrogativi, allora è meglio tacere piuttosto che chiamare in campo il Cnel a combattere una battaglia con i manipoli dei consulenti parlamentari e governativi.

Niente confusione. È un fatto di lealtà costituzionale. Capisco che di questi tempi possa apparire inutile dichiararlo, ma è essenziale tenervi fede da parte di chi vi creda.

Due parole, infine, sui Comitati economico sociali. Lo sanno tutti che svolgono un ruolo essenziale a ridosso delle grandi organizzazioni sovranazionali e internazionali. Il Comitato economico sociale delle Nazioni Unite esprime più cultura della stragrande maggioranza degli Stati membri. La domanda, allora, è: perché funzionano? Direi che la risposta, confinata qui alla fine di un breve ragionamento sul Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro del nostro paese, consiste nel fatto che non c’è conflitto di rappresentanza. I Comitati economico sociali non sono concorrenti degli organismi cui accedono. La questione è ovviamente complessa. Chi come me è stato tra i primi in Italia a rilanciare, per rafforzare il peso internazionale del Paese, ipotesi di cessione calibrata della sovranità per contrastare fenomeni globali dannosi per gli interessi del nostro stesso Paese, porta con sé il convincimento che questo tipo di organismo risponda a principi generalissimi che assomigliano ai beni comuni globali. Purché, ovviamente, siano controllati da vicino da istituzioni democratiche rappresentative.

Allora, e per concludere, solo chi ha avuto “affetto” istituzionale per il Consiglio nazionale dell’economia del lavoro, può oggi legittimamente affermare che per conferirgli un ruolo effettivo, nell’attuale contesto politico, occorre riscriverne la legge che lo governa, ben al di là e con tutta la considerazione che si deve a chi oggi ne porta la responsabilità per nomina governativa.

Che si debba porre fine allo svuotamento della democrazia che avviene attraverso manovre ostili di poteri antidemocratici quelli che ci hanno proiettato verso la post democrazia, è fatto che appartiene alla volontà politica di chi intende trasformare il paese. E non si ferma davanti alla prospettiva di giochi e giochini.

Alessandro Diotallevi

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