Oggi tutti i principali giornali economici del mondo pubblicano, con il rilievo della prima pagina le allarmanti previsioni del Fondo Monetario Internazionale in merito agli effetti del coronavirus sull’economia del globo.

Come può facilmente verificarsi – con particolare evidenza attraverso la tabella pubblicata dal Financial Times, l’economia italiana

– subito dopo quella spagnola – sarà quella che – nel mondo – subirà il peggiore impatto dell’epidemia. Il colpo micidiale è paragonabile solo a quello della Grande Depressione del 1929 e tale da surclassare la crisi finanziaria di dodici anni fa.

E’ ovvio che leggendo tali informazioni si senta l’esigenza di associarle con ciò che ciascuno di noi può sentire da persone di posizione economica non solidissima e che non hanno un reddito garantito dal bilancio dello Stato in merito alle previsioni sul prossimo futuro.

E’ poi altamente probabile che la crisi – presto o tardi (ma non tardissimo) – morderà, e non poco, anche i redditi garantiti dal bilancio pubblico, semplicemente perché lo Stato non può espandere oltre un certo limite il proprio indebitamento, per quanta buona volontà ci metta la BCE. Data l’entità della fetta del reddito nazionale garantita dal bilancio pubblico, ciò produrrà effetti a catena.

Effetti pesantissimi sono prevedibili anche per il settore immobiliare (rifugio da sempre del patrimonio di tantissime famiglie italiane), che già subisce da oltre quindici anni una continua erosione.

Di fronte a questo scenario, temo che anche i famosi 25.000 euro senza valutazioni delle banche sul merito di credito, siano strumento insufficiente a tenere a galla e far ripartire moltissime attività. Nessuno, in previsione di tempi duri così prolungati (ad esempio tutto il settore turismo e ristorazione) è propenso a caricarsi nuovo debito.

A questo punto, la domanda da porsi è se le strutture politiche, sociali e amministrative di cui il paese dispone saranno in grado di “contenere” non solo la perdita di reddito uniformemente distribuita, ma anche le migliaia di tragedie individuali e familiari determinate dalla vera e propria distruzione di forze produttive: fra uno o due mesi centinaia di migliaia di artigiani, piccoli imprenditori, commercianti, piccoli professionisti si troveranno semplicemente disoccupati. Alcuni avranno tentato di vendere l’attività – o meglio svendere – per liberarsi dei costi fissi. Moltissimi altri avranno cessato di pagare affitti o mutui, con effetti a cascata.

I 5 stelle hanno una loro ricetta: reddito universale. Se si ha l’impellenza di portare a cassa un reddito minimo mensile, certamente questa ha l’aria di essere una soluzione.

Non so da quale visione di politica economica e da quale idea del mondo prossimo venturo derivi questa proposta. Nutro seri dubbi che abbia un qualche nesso con la dottrina sociale della Chiesa, nonostante Grillo abbia tentato maldestramente di reclutare anche Papa Francesco fra i sostenitori della sua campagna. A me questa ricetta invece appare semplicemente una delle ennesime trovate del comico genovese, al tempo stesso istrionesche e denigratorie di un sistema che gli ha consentito di esprimersi, di reclutare adepti alle sue “idee”, nonché di avere successo e di accumulare discrete ricchezze private.

Preferisco porre il tema delle gravi difficoltà economiche del paese secondo un approccio diverso. Meno massimalista e meno sloganistico.

L’Italia è da tempo un paese nel quale il lavoro e lo spirito di impresa sono fortemente penalizzati a vantaggio della rendita.

Per quanto riguarda il lavoro, ormai il nostro è un paese in cui molti giovani si ritengono fortunati a lavorare in nero 8 ore al giorno per 400-500 euro mensili, cioè con paghe praticamente allineate su quelle dei raccoglitori di pomodoro del casertano (secondo meccanismi già da 150 anni messi in luce da Carlo Marx). Anche i fortunati che riescono a trovare un posto di lavoro alla luce del sole rimangono quasi sempre ben distanti da quel senso di stabilità che la parola “lavoro” tradizionalmente portava con sé (ormai un ricordo che sbiadisce).

Per quanto riguarda l’impresa, i dati sulla progressiva riduzione complessiva della nostra base produttiva sono purtroppo una costante da anni. Per non parlare della desertificazione delle grandi realtà di interi comparti (dalla meccanica, alle costruzioni, alla distribuzione, al lusso, ecc.). Le vicissitudini a cui va incontro chi voglia intraprendere – dal basso, con le proprie forze o associandosi – una attività di impresa sono tali da scoraggiare chiunque. Questa crisi segnerà la morte di centinaia di migliaia di imprese nelle quali si erano consolidati per anni investimenti ed energie imprenditoriali e che oggi saranno vendute a “valore zero”.

Prosperano invece – in termini relativi – le rendite come componente crescente dei redditi nazionali.

Le tre caratteristiche della società signorile – crollo del tasso di occupazione, fine della crescita e consumi opulenti – sono oggi tutte e tre fortemente impresse nella nostra economia, come ha messo recentemente in luce Luca Ricolfi. La progressione verso questo tipo di struttura economico-sociale è stata favorita nell’ultimo ventennio da una rigidità monetaria non adatta ad un’economia esportatrice come la nostra e che ha reso impossibili quelle periodiche svalutazioni che consentivano di redistribuire ricchezza dalla rendita ai salari e ai profitti.

Insomma, la nostra economia è bloccata e – come dimostrano i numeri di Ricolfi – le rendite stanno per finire.

Bene, il coronavirus – a mio parere – non farà altro che accelerare il processo di esaurimento della rendita, quale ultimo, provvisorio, rimedio alle impellenze dell’emergenza.

A questo punto, vedo due strade: o dalla società signorile di massa passeremo in pochi anni alla società sussidiata (e impoverita) di massa, con uno Stato nelle vesti di grande erogatore di sussidi. Lascio alle trovate di Beppe Grillo la soluzione del quesito come ciò possa essere compatibile con una base produttiva sempre più esigua e con un debito pubblico che – presto o tardi – toccherà il suo tetto.

O la strada da seguire deve essere un’altra e passare attraverso un enorme sforzo per il rilancio delle attività produttive, dei salari e dei profitti, al quale subordinare tutte le scelte di politica interna ed internazionale. E alla quale subordinare anche il nostro negoziato con i partner europei.

In sostanza, il mio dubbio è: e se MES o Coronabond fosse una questione del tutto secondaria? Infatti, sempre di nuovo debito si tratta.

E se la nostra politica italiana si stesse dividendo (come sempre, immancabilmente, da anni) su una falsa questione? Pura propaganda.

E se invece il tema vero da focalizzare fosse quello di un rigido modello tedesco che rischia di travolgere non solo l’economia italiana, ma quella di tutti i paesi mediterranei e – alla fine – della stessa Germania?

E se aprissimo una discussione, non irta di tecnicismi, ma pienamente politica sulle condizioni per suscitare un vero sforzo di salvezza nazionale e far ripartire il meccanismo produttivo italiano ormai bloccato? Non dando nulla per scontato nel rapporto con l’Europa, né le politiche di austerità, ma neanche i Trattati (come suggerito di recente, tanto da Zamagni quanto da Sapelli) i cui vincoli dovremmo, stimolati dall’eccezionalità della crisi, porre oggi sotto esame con spirito laico.

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