Un’estate caldissima; la mancanza delle piogge con i fiumi in secca e una siccità che ha messo in ginocchio l’agricoltura; gli estesi e devastanti incendi boschivi; i violenti nubifragi, le bombe di acqua e veri e propri uragani in aree dal clima classificato temperato. Sono fenomeni che hanno interessato l’Italia e larga parte dell’Europa, mentre eventi climatici anomali si sono verificati ovunque nel Mondo.

Per salvare il nostro Pianeta, è cominciato un drammatico conto alla rovescia, ha scritto Francesco Provinciali su “Rinascita popolare” ai primi di agosto. Tuttavia, mi pare che le élite che ne hanno nelle mani le sorti non sembrino essere pienamente consapevoli della situazione, visto che di tutt’altro sono occupate e preoccupate. C’è chi tace o definisce eccezionale quanto accade, chi minimizza, chi riconosce la necessità di mettere in campo progetti green per salvaguardare le prossime generazioni, senza prendere atto che non si tratta solo di garantire un futuro a figli e nipoti, ma che quel paventato futuro è già qui oggi, e va affrontato adesso.

Tuttavia, a difesa delle predette élite, è sceso in campo Federico Rampini che, intervistato su RAI 3 nello scorso luglio, ha criticato quello che definisce un ambientalismo fondamentalista. Un conto sono i giovanissimi seguaci di Greta Thumberg ai quali si può perdonare l’ingenuità dovuta all’età, altra cosa sono quegli adulti che chiedono l’abbandono delle fonti fossili per domani.

È evidente che gli esponenti del mondo politico, e di quello economico e produttivo pensano che ci sia ancora molto tempo per realizzare la transizione. Lo rivelano le proposte che mettono in campo. Il nucleare non produce CO2, quindi sembrerebbe una soluzione, ma, a parte i costi, ci voglio più di 20 anni per realizzare una centrale: avremmo pertanto le centrali attive a tempo scaduto. Lo stesso discorso può esser fatto con lo sfruttamento di nuovi giacimenti di metano. La perforazione dei pozzi e la costruzione di metanodotti richiedono un tempo poco compatibile con gli obiettivi temporali imposti dalla stessa UE: disporremmo del gas quando le fonti energetiche fossili saranno già escluse totalmente o in larga misura.

Dire che non è possibile rinunciare alle fonti fossili a partire da domani mattina è lapalissiano. La transizione richiede dei tempi, ma questi possono essere molto diversi a seconda di come la si affronta.

Per evitare un peggio inimmaginabile, bisogna appunto fare il conto alla rovescia: quanti anni abbiamo davanti a noi per realizzare l’indispensabile transizione energetica con l’abbandono dei carburanti di origine fossile? Non certo 40-50 anni, come emerge da molti interventi di esponenti politici e del mondo economico, e come pare credere Rampini, soggetti preoccupati di salvaguardane l’attuale sistema economico-produttivo più che il Pianeta.

Luca Mercalli, e vari esperti di clima ci dicono che abbiamo 15, al massimo 20 anni. Previsione catastrofista o comunque eccessivamente pessimistica?

I climatologi (la maggioranza di chi si occupa di tale disciplina) ci dicono che, per contenere il riscaldamento climatico entro +1,5° C per la fine del secolo, bisognerebbe completare la transizione già nel 2040. Infatti, oggi stiamo a +1,09° C, e, ai ritmi di incremento attuali, si sta andando verso +2,7°C, una catastrofe inimmaginabile. Nel frattempo, procede indisturbata la deforestazione ad opera dell’uomo a cui si aggiungono le superfici boschive, sempre più estese, distrutte dagli incendi. Vanno persi i polmoni della Terra.

A conferma di tale rappresentazione, ricordiamoci le molte critiche ai documenti scaturiti a conclusione del G20 di Roma e della COP26 di Glasgow, giudicati inadeguati da coloro che sono sempre stati molto attenti ai temi ambientali, mentre autorevoli personalità avevano avanzato dubbi sulla sufficienza dei traguardi posti, e sugli impegni e i tempi per raggiungerli.

Ma restiamo pure agli obiettivi fissati dalle varie COP (Conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) e fatti propri in sede UE: azzerare le emissioni di gas serra di origine antropica entro il 2050; dimezzarle entro il 2030. Per il primo obiettivo, ci restano 28 anni, per il secondo 8.

Sono imprese subito apparse difficoltose, ma la riapertura delle centrali a carbone, e più in generale il ritorno a questa fonte energetica (la peggiore per generazione di CO2) per sopperire alle conseguenze del contrasto con la Russia, rendono quasi impossibile raggiungere tali traguardi (soprattutto il dimezzamento per il 2030). Aggiungiamoci poi l’autorizzazione del nuovo governo britannico (motivata dall’emergenza) alla produzione di shale gas e allo sfruttamento degli scisti bituminosi, una decisione devastante in materia ambientale. Tutto ciò rivela l’irresponsabilità di chi antepone la competizione per definire gli assetti internazionali alla lotta contro il cambiamento climatico. Un pericolo per ogni seria politica in difesa del Pianeta, denuncia Roberto Battiston sul “Corriere della sera” in data 27/8/2022, in un articolo intitolato Se il clima e l’ambiente sono ostaggio della geopolitica.

Guardando al nostro Paese, mi chiedo come si possa realizzare la transizione quando per autorizzare l’impianto di pale eoliche e pannelli fotovoltaici sono richiesti anni, e basta un qualunque TAR per bloccare tutto. Qui non si vuol capire che siamo in una situazione grave, destinata a peggiorare, di fronte alla quale ci vogliono strumenti di pronta efficacia. La protezione civile di Zamberletti ed anche quella di Bertolaso sapevano affrontare le emergenze senza che l’Italia diventasse una dittatura o venisse regalata alla mafia, come temevano alcuni.

Tuttavia oggi non si tratta di un’emergenza, ma della nuova realtà prodotta dal riscaldamento climatico. Quindi più che interventi emergenziali, occorre una radicale riorganizzazione del Paese che investa ogni ambito, perché la capacità di agire in tempi rapidi è diventata una esigenza primaria. Come riporta Francesco Provinciali, “i governi dovranno assumere provvedimenti legislativi condivisi ed azioni urgenti di freno a questa deriva distruttiva del pianeta”. Essere in grado di prendere decisioni, di metterle in atto prontamente e di conseguire gli obiettivi non è in conflitto con la sovranità popolare, piuttosto la esprime compiutamente.

La situazione italiana è, per certi aspetti, più difficile che altrove in Europa. Quest’anno è andato perso, a causa del cambiamento climatico in atto, dal 20% al 40% della produzione agricola, con punte in taluni settori del 50%. Rammento per l’ennesima volta che, con quanto produce in tempi normali il territorio nazionale, si copre circa il 50% del nostro fabbisogno di cereali e semi oleosi (alla base di tutto quanto mangiamo). Con il nuovo andamento climatico, il nostro deficit alimentare si è fatto pertanto più pesante. Inoltre, le perdite produttive hanno riguardato molti Paesi cerealicoli, compresi la Francia, da cui importiamo gran parte del frumento tenero, e il Canada, che ci fornisce il grano duro. Malgrado ci venga detto che comunque nel mondo la disponibilità di cereali resta elevata, non è difficile immaginare le difficoltà a cui possiamo andare incontro, con tali cali di produzione, se non ci muoveremo con determinazione per affrontare la condizione nuova in cui siamo, e ancor più verremo a trovarci.

Sul piano generale, un fatto (che riguarda tutti i Paesi) deve essere chiaro. Per affrontare il cambiamento climatico, è certo fondamentale mettere a punto e varare progetti organizzativi e tecnici per ridurre le emissioni di gas serra, ma ciò non basta. È necessario mutare il modello economico produttivo, gli standard, gli stili di vita ed i consumi vigenti. Ci ha detto il Premio Nobel Giorgio Parisi che uno sviluppo fondato sulla crescita del PIL non è compatibile con il contrasto al riscaldamento climatico.

Una dichiarazione esplosiva (analoga a quanto tempo fa disse Gael Giraud, gesuita ed economista di fama internazionale). Ma quasi tutti sono passati sopra queste parole senza commentarle, o meno che mai confutarle. Eppure investono proprio il punto centrale su cui misurarsi per definire un progetto idoneo a contrastare le incombenti criticità.

Si dirà che nessuno, né in ambito politico, né in quello economico-produttivo, può prendere in considerazione le parole del Nobel perché, per i protagonisti di tali settori, sarebbe un suicidio accantonare l’assetto su cui si basa il loro ruolo e il loro potere. Inoltre, nemmeno i comuni cittadini sono disposti ad accettare le rinunce che ne deriverebbero.

Tuttavia, non ci vorrà molto tempo perché le conseguenze del riscaldamento climatico si rivelino più pesanti dei sacrifici richiesti per contenerlo. Allora, a fronte dell’evidenza, forse si farà quanto necessario, sperando che non sia troppo tardi.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione dei Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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