In questo ultimi giorni, abbiamo assistito con passione unita a sgomento, alle cattive pratiche per l’elezione del Presidente della Repubblica. Dopo una breve stagione di buone intenzioni, espresse perfino da qualche leader di partito, al primo approssimarsi della convocazione del Parlamento in seduta comune, dei grandi elettori come hanno sottolineato i giornali, sono riemerse vorticosamente pratiche non solo opache ma autodistruttive. Al netto di tutto il resto, e cioè della rielezione del degnissimo Presidente Mattarella, sul terreno istituzionale sono rimaste macerie diffuse dei partiti, delle istituzioni rappresentative, delle regole, e, perfino, della Costituzione.

Durante la lunga preparazione dell’elezione del Presidente della Repubblica, non sono mancati richiami alla saggezza e nemmeno al dovere delle forze politiche, in primis, di rendere chiaro a tutti i cittadini quale fosse il percorso in atto per l’individuazione del Presidente della Repubblica. Qualcuno ha ricordato la tesi pannelliana che insisteva nel dovere di presentazione di candidature alla posizione di Presidente della Repubblica, candidature corredate, evidentemente, dal programma per il settennato (ancorché un Presidente della Repubblica sia completamente vincolato dalla Costituzione e, quindi, non possa e non debba discostarsene nella delineazione della sua interpretazione del ruolo di garanzia che gli è conferito con l’elezione).

Altri hanno maneggiato l’elezione del Presidente della Repubblica con le categorie tipiche della politica, facendo trasparire che deve esserci un’accettazione delle sue regole, molto, troppo spesso, non commendevoli, perfino nell’elezione della Suprema Magistratura statuale. Alla fine, come sappiamo, senza neanche riuscire a comprendere in pieno cosa sia successo, il Presidente Mattarella si è trovato nella condizione di dover recedere dal fermo proposito di non esercitare un ulteriore mandato.

Questo il contesto, riscontriamo, salvo errori o dimenticanze, come la vox communis si sia concentrata nel ricercare, affermare, reclamare il salvifico ruolo del Presidente della Repubblica.

E però, per quanto l’esercizio della funzione presidenziale si sia manifestato in tutta la sua ampiezza in occasione dell’ultima crisi di governo, nessuno si è fatto avanti ad esaminare ed offrire al Presidente della Repubblica le condizioni di esercizio delle sue prerogative in un contesto politico-istituzionale bonificato dalle grandi crisi in corso. Tra queste grandi crisi, proprio perché il Presidente della Repubblica è a buon diritto soggetto attivo della ripartizione tra gli organi della funzione di indirizzo politico, condividendola con il Parlamento e il Governo, proprio la relazione tra queste due ultime istituzioni costituisce il presupposto funzionale dell’esercizio dei poteri presidenziali.

Con sagacia figlia di esperienza, è stato detto che la funzione legislativa è ormai defluita nelle mani dei Governi che ne hanno espropriato le Camere. Ed è stato aggiunto che il fatto è intervenuto sotto lo sguardo benevolente di generazioni di Presidenti delle due Camere.

Fuor di dubbio che la legislazione sia prevalentemente figlia dell’iniziativa legislativa dei Governi – statisticamente è stato più volte descritto il fenomeno come massiccio e granitico – il punto di riflessione che si è dovuto aggiungere alle rilevazioni statistiche è costituito dal fatto che non solo le leggi sono derivazione dell’iniziativa legislativa del Governo ma ormai frequentissimamente sono figlie delle necessità di funzionamento dei Governi medesimi. Questi esercitano l’iniziativa con i decreti legge e soffocano il dibattito parlamentare con i voti di fiducia. Di chi sia la responsabilità è questione politica primaria. Non penso, in tutta onestà, che il ruolo dei Presidenti delle Camere le abbia mortificate più di tanto. Camere, Governi, Istituzioni, Sub-istituzioni, Autorità Indipendenti, sono tutte espressione di un fenomeno che si dovrà affrontare con la massima energia. Quello dello strapotere dei partiti. E lo si dovrà affrontare non già partendo dalle riforme elettorali che, come la storia e la cronaca si sono incaricate di dimostrare, accompagnano la prepotenza dei partiti. Si dovrà intervenire con la riforma dei partiti. Di questo ha certo bisogno il Presidente della Repubblica se, come è vero, nelle ultime consultazioni per il conferimento del mandato al Presidente del Consiglio ha dovuto, sconsolatamente, rilevare come le forze politiche non fossero in grado di esprimerlo. Ha dovuto rilevarlo e giustificarlo.

Diceva Ruffilli che “il pericolo per i partiti è la perdita di legittimazione come perno della democrazia … vi è il rischio per i partiti di saper sempre meno fronteggiare le contraddizioni di una partecipazione di base, nei suoi risvolti anarchici e corporativi”.

Dobbiamo ricordare che negli ultimi trent’anni a costruire l’identità di partito ha cessato di portare il proprio contributo l’appartenenza di tipo ideale. Si è avverata la previsione fatta da Scoppola dell’avveramento del principio di frammentazione per liste corporative che rappresentano interessi locali o settoriali-lobbistici. Nobile intuizione, quella di Pietro Scoppola, confermata dall’irruzione dei partiti degli egoismi territoriali e nell’ultimo scorcio repubblicano della sopraffazione dei mastodonti corporativi che hanno perfino infranto le leggi dell’economia (non vi sembri eccessiva questa affermazione sulla quale si dovrà ritornare perché è chiaro a tutti come siano mutati i rapporti tra produzione e distribuzione, come perfino le emergenze abbiano ridisegnato gli assetti sociali consolidati).

Allora, il rapporto tra Parlamento e Governo o torna ad essere contraddistinto da una preliminare e regolata predisposizione delle piattaforme elettorali dei partiti, con tanto di sottoposizione espressa alle regole generali dell’ordinamento giuridico, a partire da quelle costituzionali, oppure i Governi resteranno l’unico riferimento decisionale per i popoli. Insieme al Parlamento, con buona pace di chi la invoca anche scompostamente, andrà a farsi benedire la stessa sovranità popolare. Per decenni si sono succedute commissioni parlamentari per le riforme istituzionali, si sono succeduti annunci di questo o quel partito di voler ridisegnare la Costituzione, si sono giocate le sorti politiche di leaders dell’ultima ora con avventuristiche riforme costituzionali, sanzionate democraticamente dal corpo elettorale-referendario: hanno sempre lavorato sotto l’insidia del dominio dei partiti.

La democrazia dei partiti va completamente rivista. Chiaro che essi costituiscano il tramite logico verso la rappresentatività prima ancora che verso la formazione di maggioranze: in questo consistono i principi costituzionali dei quali godiamo i frutti. Chiaro che, e lo dico con le parole di Pietro Scoppola, “dovremmo occuparci dei partiti sul versante della formazione della rappresentanza, della loro incidenza, del ruolo che svolgono nella formazione delle maggioranze, dell’esecutivo, dei rapporti tra Parlamento ed esecutivo, ossia del partito come elemento di raccordo di tutto il dinamismo istituzionale, di tutto il circuito istituzionale nella logica della centralità della rappresentanza”.

Sotto questa condizione il Presidente della Repubblica riprenderà, senza dover forzare il proprio ruolo, il suo dovere di individuare le condizioni di sintesi politica tra l’esigenza di far decidere gli organi della democrazia e l’esigenza della loro capacità di rappresentanza.

Scoppola riportava in un suo intervento il pensiero del Senatore Valiani. Lo credo meritevole di essere riproposto: “la direzione giusta è il rafforzamento dell’autorità dello Stato, la direzione sbagliata l’indebolimento, l’incentivazione delle demagogie di piazza, dei corporativismi”.

Alessandro Diotallevi

About Author