In queste settimane, è un fiorire di discorsi in cui, a proposito dell’Ucraina, si parla di un conflitto tra un aggressore e i patrioti che difendono il loro Paese. Di conseguenza noi italiani (lo dicono le nostre massime autorità) ci dobbiamo schierare con l’aggredito e sostenerlo fino alla vittoria perché la guerra potrà concludersi solo con il riconoscimento delle sue ragioni.

In realtà, da sempre, le cose del mondo sono molto più complesse, e i torti e le ragioni non si possono separare con un tratto di spada, tanto più che (come ha detto Romano Prodi) lo scontro in atto è, nella sostanza, fra Stati Uniti e Russia, essendo l’Ucraina il terreno su cui si gioca la partita della definizione di un nuovo assetto internazionale

Gli storici sovente distinguono fra chi ha dato inizio a una guerra (con una formale dichiarazione o con una azione offensiva) e chi, nei fatti, l’ha provocata o ne ha posto le premesse. Le due figure possono certamente coincidere, ma spesso non è così.

Un esempio classico è quello della guerra franco-prussiana del 1870. Ad iniziarla, è stata la Francia di Napoleone III, spinto da un’opinione pubblica che voleva la Prussia in ginocchio, ma, a provocarla, è comunemente ritenuto essere stato Bismarck che ha sventolato, al momento giusto, un drappo rosso davanti al toro francese, scatenandolo in una carica a testa bassa.

Anche oggi nella vicenda ucraina (le cui premesse si sono andate creando nell’arco di anni), le due figure sopracitate (aggressore e provocatore) in notevole misura non si sovrappongono, al contrario di quanto pretendono molti commentatori. Lo dicono autorevoli esperti di questioni geopolitiche.

Lucio Caracciolo ha scritto che Putin è l’aggressore in Ucraina, ma che nel pluriennale confronto, sempre più teso, fra America e Russia, quest’ultima è sempre stata sulla difensiva (essendo Putin consapevole delle limitate potenzialità militari, demografiche ed economiche del suo Paese rispetto all’avversario). Da ciò, deduco che qualcun altro sia stato all’offensiva.

Noti politologi americani, come George Kennan, Paul Nitze, Henry Kissinger e Robert McNamara (già detentori di importanti incarichi politici e diplomatici della repubblica a stelle e strisce) hanno considerato l’espansione della NATO verso le frontiere della Russia una provocazione che avrebbe avuto conseguenze negative e pericolose. Alcuni di loro hanno detto che l’estensione della NATO all’Ucraina riproporrebbe (a parti inverse) lo scenario drammatico del 1962 con la vicenda dei missili sovietici a Cuba.

Anche per Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, (“Avvenire” del 5 marzo) la Russia è stata umiliata e circondata dalla NATO e, per reazione, ora cerca di rilanciarsi attraverso una sua presenza imperiale. Per uscire da tali pericolose dinamiche, aggiunge, bisogna porre termine quanto prima a questa guerra in Ucraina lasciando una via di fuga al leader russo.

Ora, a seconda dei punti di vista, torti e ragioni possono essere distribuiti diversamente fra quelli che sono i veri contendenti (Russia e Stati Uniti), ma dovrebbe essere chiaro a tutti che la vicenda è intricata, e nessuno ha le mani nette. È una premessa necessaria per affrontare con realismo una situazione che crea lutti e dolore a chi vi è direttamente implicato, e guasti rilevanti a larga parte del mondo.

Henry Kissinger ha più volte ribadito che le crisi internazionali si superano solo con i compromessi, cercando di sminare il terreno dai maggiori fattori di contrasto per giungere a nuovi durevoli equilibri tra le potenze. Tuttavia sentiamo dire (anche in casa nostra) che è antistorico parlare di “potenze” in un mondo globalizzato sempre più aperto al multilateralismo: pertanto, Cina e Russia vengono invitate ad abbandonare questa logica ottocentesca. Ma le potenze ci sono (lo affermano tutti gli esperti di geopolitica) a partire da quella Numero Uno sempre intenta a difendere il suo primato, ad accrescere il proprio ruolo, e, se possibile, a restare l’unica in campo nel pianeta. Quindi, invece di farsi la guerra, sarebbe meglio per tutti che le potenze giungessero a una qualche convivenza riconoscendo i legittimi interessi, le preoccupazioni e i timori di ciascuna parte.

Invece, si preferisce invocare il diritto internazionale per dirimere la questione di chi abbia torto o ragione nella vicenda ucraina dimenticando le tante volte in cui proprio quanti oggi lo invocano hanno palesemente violato ogni sua regola. Fra questi, in primis ci sono gli USA, che in genere hanno cercato di mascherare le proprie cattive azioni con assai opinabili motivazioni umanitarie o in nome della diffusione della democrazia, ma talora – specie quando si è trattato di America latina (come ad esempio a Grenada e Panama), considerata “roba loro” – non hanno nemmeno tentato di fornire giustificazioni: hanno agito, punto e basta.

Pertanto, piuttosto che ricorrere a un “diritto” che di volta in volta viene piegato alle convenienze (sempre del più forte), sarebbe opportuno che i potenti mettessero le carte in tavola palesando i propri interessi e, senza ipocrisie, mercanteggiassero (ciò che solitamente sanno fare) tenendo conto però anche degli intessi degli altri, a partire di quelli che maggiormente patiscono della guerra in corso.

Perché non si trova modo di chiedere (con consultazioni gestite dall’ONU) a chi vive in Crimea, nel Donbass o nei territori russofoni che cosa vuole, dove stare o con chi stare? Coinvolgere la popolazione nella definizione del proprio destino non è mai sbagliato.

Ma si ribatte subito che così si esautora il governo ucraino che legittimamente rappresenta la nazione. Dario Fabbri in una trasmissione televisiva ha fatto, come sempre, un discorso molto concreto. Dietro ai molti Paesi di cui le carte degli atlanti disegnano i confini evidenziandone i territori con i diversi colori, c’è sovente una situazione disgregata, frantumata che non consente di considerarli delle vere entità statali come gli organismi internazionali vorrebbero intenderli. È il caso di molti paesi africani i cui confini, a suo tempo, sono stati tracciati con il righello dalle potenze coloniali, e anche quello di territori devastati e smembrati da conflitti recenti come Libia, Siria e Iraq. Pure l’Ucraina disegnata sulle carte geografiche (comprensiva di Crimea e Donbass), dice Fabbri, non corrisponde alla situazione di fatto.

Quindi la ricerca di una soluzione deve partire dalla realtà, tenendo conto degli equilibri internazionali e possibilmente delle aspirazioni di chi abita i territori contesi. Compito difficile, ma non la quadratura del cerchio.

Da tempo, chiunque osservi con lucidità il succedersi degli avvenimenti si rende conto che il mondo intero sta andando incontro a tempi difficilissimi. Innanzitutto, c’è il riscaldamento climatico che procede a un ritmo forse superiore a quello fino a ieri previsto da molti scienziati, e di cui già oggi si fanno sentire i pesanti effetti negativi. C’è la pandemia non ancora pienamente sotto controllo, mentre già se ne intravedono altre. Le crisi alimentari, che i fautori della globalizzazione avevano ritenuto non più possibili, si riaffacciano all’orizzonte non solo per la guerra, ma anche per la siccità, per i frequenti danni provocati da un clima anomalo, per il progressivo esaurimento o rincaro delle risorse (materiali ed energetiche) necessarie all’agricoltura.

Di fronte a queste incombenti minacce, la ragione imporrebbe di mettere da parte tutti i conflitti dettati da logiche di potenza, da rese dei conti tra storici avversari, da velleità di imporre agli altri il proprio dominio, le proprie esigenze, la proprie idee e i propri valori. Dovrebbe prevalere l’interesse comune a contrastare con efficacia le predette calamità unendo le forze.

Invece vediamo accadere il contrario: le strategie belliche e le misure per colpire il “nemico” con tutti i mezzi a disposizione inducono a fare passi sconsiderati, come ostacolare il commercio di cereali e generi alimentari, o come riattivare le centrali a carbone e rallentare la transizione energetica pur di giungere a fermare le importazioni di gas e di petrolio dalla Russia, mentre stiamo già vivendo, con la siccità e il gran caldo, le prime avvisaglie di ciò che di ben peggio ci attenderà nei prossimi anni. Nel frattempo, si mettono in campo sempre nuove sanzioni senza tener conto dell’inevitabile effetto boomerang che crea danni non solo alla parte avversa ma anche a chi le propone e ai Paesi terzi. Inoltre, sentiamo dire che la guerra potrà, o addirittura dovrà, durare anni: secondo una parte, fino alla sconfitta di chi ha violato le norme internazionali; secondo l’altra parte, fino a quando i confini del Paese saranno messi in sicurezza e tenuto distante da essi ogni potenziale nemico.

Sembra trionfare l’irresponsabilità, o l’incapacità di percepire i molti pericoli cui si va incontro a partire da una guerra mondiale con ricorso ad armi nucleari.

Mentre quei Paesi (rappresentativi di oltre metà dell’umanità) che non si sono schierati e fatti coinvolgere nelle sanzioni e nei boicottaggi guardano con crescente inquietudine e apprensione agli eventi, voci preoccupate per la deriva in corso cominciano a farsi sentire anche in Occidente tra chi non si fa travolgere dal clima emotivo e militante oggi imperante, e perfino in Russia fra quanti (superando l’atavico timore di essere aggrediti da ovest) si rendono conto che il Paese sta percorrendo un cammino sbagliato e pericoloso. Dobbiamo impegnarci perché tali voci diventino ovunque più forti e più numerose.

Giuseppe Ladetto

Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione I Popolari del Piemonte (CLICCA QUI)

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