Si sente spesso parlare, in queste settimane, di aziende del Sud e di piani di investimenti nelle regioni meridionali.

Non c’è politico che non esterni qualche sua opinione a prescindere da qualsiasi grado di competenza sull’argomento. Sicuramente, il tema merita particolare attenzione. Non a caso, questo numero della rivista “Italia informa” ospita un’interessante intervista del Presidente della Svimez, meritevole Istituto di studi sul Mezzogiorno d’Italia.

Certo è difficile approdare a proposte innovative, senza una valutazione critica del modello che fino ai nostri giorni ha governato l’intervento pubblico nel Sud. Tanto per cominciare, va considerato francamente superato, il
modello ideologico delle due Italie: una malandata, che viene assistita, e l’altra avanzata socialmente, tecnologicamente e per l’assetto produttivo; un’Italia cioè che assiste l’altra, per lo più delocalizzando le sue linee produttive, non sempre all’altezza del mercato.

Insomma, la solita Italia di serie A, contrapposta a una di serie B. Ma qui c’è qualche interessante novità: nuovi scenari, ad iniziare dalla diffusione della digitalizzazione, impongono nuove logiche e nuovi modelli di sviluppo. Al giorno d’oggi, l’imprenditore che produce software, utilizzando piattaforme tecnologiche e algoritmi innovativi è un soggetto globale al Sud come al Nord d’Italia.

Il “nordista” ha poca assistenza da dare e il “sudista” non ha bisogno della ex Cassa del Mezzogiorno, nè del fisco agevolato, perché le agevolazioni fiscali hanno un effetto marginale sulle decisioni di investimento (C. Cottarelli “I sette peccati capitali dell’economia italiana” Editore Feltrinelli).

Sia al Nord che al Sud servono, invece, infrastrutture di supporto all’intelligenza artificiale; servono scuole di formazione specialistica; gli istituti di ricerca sono fondamentali. Questa domanda è di elevata qualità al Nord come al Sud. L’Italia del futuro, globale e digitale, sarà un unico territorio su cui sviluppare “joint venture” tra operatori italiani e stranieri per sinergie che diano competitività internazionale. E il futuro è già qui, se si guarda al
riassetto urbano di città del Sud come Lecce e Matera, che sono oggi un esempio da imitare anche per molte cittadine del Nord.

Sono un esempio del possibile allineamento delle due Italie, quella “arretrata” e quella più evoluta. L’attuale presenza dello Stato e degli Enti Locali va, invece, sottoposta ad un’operazione di ridimensionamento perché non
in grado di fornire adeguatati servizi per promuovere un’economia dinamica, competitiva ed innovativa. A nuovi soggetti pubblici spettarà ora l’elaborazione e l’attuazione di nuovi interventi strategici in campi sinergici alle imprese, ma ognuno con responsabilità indipendente e ben definita.

Queste aree sono l’istruzione e la formazione, il capitale umano, le infrastrutture digitali, le reti di intelligenza artificiale. Sono investimenti di alta qualità parimenti al Sud come al Nord, senza differenze. Così, si possono fare intese tra protagonisti di pari dignità. Ad esempio, il giovane imprenditore pugliese che, in soli quattro anni, realizza un’azienda dotata di 50 unità tra ingegneri, chimici e fisici ed è presente con un’unità di produzione anche in USA, è senz’altro una “risorsa” per un’intesa alla pari con operatori complementari localizzati al nord.

Tutto ciò è favorito dall’abbassamento delle soglie di entrata nei ricchi segmenti di mercato del digitale e della robotica ecc. E’ il momento dei capitali immateriali: al sud come al nord vi sono pari opportunità.

Nel nuovo scenario globale l’impresa può realizzare il proprio futuro prescindendo, come già sottolineato, dai fondi pubblici; contando, piuttosto, sulla disponibilità di infrastrutture digitali e di capitale umano all’altezza. E’ un’idea superata ritenere, anche da parte di politici o imprenditori del sud, che una realtà imprenditoriale meridionale sia riduttiva e bisognosa di assistenza.

Anche al Sud si trovano oramai imprenditori globali, che operano nell’aerospazio come nel fintech. “A Monopoli possono partire i satelliti, si può arrivare su Marte” (24 ore del 10.10.2019). Lo dichiara il Ministro del Sud, Giuseppe Provenzano. La stessa famigerata “questione meridionale” si impone con aspetti del tutto nuovi: i modelli fallimentari del recente passato, i cui effetti perdurano ancora oggi, sono una giustificazione al cambiamento. Il caso Ilva, tema di grande attualità, è un esempio da non imitare.

Eppure, fino al 1970, la siderurgia IRI è stata una storia di sostanziale successo. Il piano di Oscar Sinigaglia per un riassetto della siderurgia pubblica italiana aveva dato nel suo complesso risultati decisamente positivi. Si passò alla siderurgia costiera, si introdussero le tecnologie d’avanguardia, si eliminarono le lavorazioni a bassa produttività, venne ridotto il personale in esubero. Si riorganizzarono gli impianti di Piombino e di Bagnoli.

Il complesso siderurgico di Cornegliano divenne uno dei più moderni d’Europa. Lo stabilimento di Taranto, in questa fase, nell’ambito del sistema Sinigaglia, svolse un ruolo produttivo efficiente ed efficace. Seppe rispondere, con competitività, alla domanda in espansione dei prodotti siderurgici; seppe esportare con profitto. Nell’ottica dell’industrializzazione del Mezzogiorno, si può sostenere che fino al 1970 la siderurgia IRI diede un contributo positivo alla crescita economica post-bellica. Le cose cambiano dal 1970 in poi. Le decisioni dell’IRI (o meglio governative e delle forze sociali ) sugli sviluppi successivi, meritano particolare attenzione per gli effetti che hanno
ancora oggi sulla politica industriale da adottare per il polo siderurgico.

Nel 1969, nell’ambito dell’IRI, del Governo e dei Sindacati, inizia la discussione sul raddoppio degli impianti di Taranto. Si apre un dibattito difficile ed arduo. Politica industriale e politica sociale si intrecciano. Le forze sociali si confrontano sui ritardi del Sud.

In questo scenario, alla fine degli anni sessanta, il governo instaurò la “concertazione programmata” tra il governo e le forze sociali, metodologia che avrebbe dovuto favorire l’industrializzazione del Mezzogiorno. In questo contesto viene discusso il cosiddetto “raddoppio di Taranto”. A questo fine furono fatti approfonditi studi, soprattutto in Finsider.

Il verdetto degli esperti fu che l’area di Taranto non era idonea al raddoppio della sua capacità produttiva. Il complesso produttivo ottimale era quello di Piombino. L’opinione dei tecnici era unanime. Piombino avrebbe consentito un risparmio di costi di produzione rispetto a Taranto di circa 117 miliardi di lire nell’arco di venti
anni (Fonte: “Storia dell’IRI” di Ranieri_Russosillo, Editori Laterza). L’ipotesi Taranto, quindi, comportava un elevato “sovracosto gestionale.”

Nonostante ciò, la scelta dell’IRI, o meglio del Governo e dei sindacati, fu Taranto. Così si ebbe la fine della crescita efficiente della siderurgia pubblica per iniziare la fase dei “costi impropri” sostenuti per ragioni di socialità nel Sud.
Si ha l’imputazione all’impresa Italsider-Finsider di una struttura di costi “inquinati” da componenti improprie, che hanno determinato un’accumulazione crescente di perdite, un ammontare insopportabile anche per un gruppo come l’IRI.

Una volta “inquinata”, l’impresa non riesce più a trovare i corretti equilibri economici e finanziari. L’Italsider ci prova diventando, nel 1988, Ilva al fine di liberarsi dei rami secchi: principalmente per alleggerirsi del personale in
eccesso e per ristrutturare il debito. Il disegno fallì.

Nel 1992, con il governo Amato, inizia il processo di privatizzazione, con l’illusione che il privato possa operare il miracolo che non era riuscito ai managers del pubblico, dimenticando quanto il management pubblico abbia contribuito al miracolo economico italiano.

La vicenda Taranto pretende un cambiamento nella politica per il Sud. Infatti, per un’azienda inquinata da elevati costi impropri che opera sul libero mercato è decisamente difficile ottenere un margine lordo in grado di assorbire le diseconomie “politiche”. E così è stato per l’ILVA, così per tante altre aziende.

Dunque, nell’ottica di una rinnovata politica meridionalista, e alla luce dell’esperienza fatta, lo Stato e gli Enti Locali dovrebbero avere un ruolo di realizzazione di investimenti in aree dove l’impresa non debba accollarsi oneri che non sono suoi. Alle Istituzioni va dato, cioè, il compito di fare ciò che il mercato non fa: istruzione e capitale umano, ambiente, ricerca di base, infrastrutture digitali. Lo Stato e gli Enti Locali solo così potranno essere, non solo nel Sud ma in tutto il territorio italiano, nuovi soggetti di una imprenditoria pubblica sinergica al mercato, e non di supplenza.

Quale lezione si può trarre? In primo luogo non possono essere accollati all’impresa costi che derivano da politiche di sostegno sociale che sono di competenza delle Istituzioni. In questi casi si auspica che lo Stato e l’imprenditoria, privata e pubblica, realizzino una sinergia tra loro. Per semplificare: allo Stato spetta in proprio la politica di tutela sociale mediante programmi specifici di investimenti, con chiare e precise responsabilità di risultati da parte dei managers pubblici.

All’impresa, invece, l’efficienza e la competitività del mercato, per una complessiva politica di crescita economica e sociale e di tutela dei posti di lavoro, secondo modelli di responsabilità sociale. Alla politica, infine, le azioni per
l’uscita dalla cultura dell’assistenzialismo per percorrere anche nel Sud la via dell’imprenditoria globale e competitiva.

Roberto Pertile

Pubblicato su Italia Informa

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