Sono passati più di dieci anni dalla crisi mondiale del 2008. Il “casus belli” è stato di natura finanziaria ed è dovuto – l’analisi è ormai consolidata – all’incepparsi, nel mercato globale, del mercato finanziario “aperto” (senza regole, senza controllo e senza supervisione) che ha dominato, negli ultimi decenni, le politiche economiche dei principali paesi.
Non si può, a questo proposito, non condividere la convinzione dell’ economista Paul Samuelson che i sistemi di mercato non regolamentati finiscano per distruggere se stessi.
Questo fenomeno viene ampliato dalla globalizzazione, che estende all’intero globo fenomeni che avrebbero mantenuto, altrimenti, una dimensione locale. La loro internazionalizzazione porta inevitabilmente ad incidere sulle economie reali: cioè sul sistema delle imprese che non viene finanziato a dovere, creando un circuito vizioso che ha fatto mandare in tilt il sistema. Di qui l’urgenza di ripensare l’attuale paradigma dello sviluppo, per avere una nuova idea di futuro.
Il futuro, per le nuove generazioni, vuol dire grande fiducia nella tecnologia. Ma l’etica di una società può fondarsi solo su splendide piattaforme tecnologiche? Temo sia ingenuo pensare di delegare all’intelligenza artificiale la creazione di un nuovo “homo sapiens”, che ricrei l’armonia dei mercati, per superare un presente che fa paura alle nuove generazioni, non allenate ad affrontare gli squilibri sociali che fanno del momento attuale una realtà dura, complessa e difficile.
Vengono, così, formulati scenari negativi per la “felicità” umana: un esempio allarmante, e non solo per i giovani, è la guerra dei dazi di Donald Trump. Il Presidente statunitense si contrappone con pericolosa forza al suo principale antagonista mondiale, la Cina, stimolandone le reazioni altrettanto bellicose. Come sempre è accaduto nella storia dei popoli, questi scontri determinano convergenze tra forze politiche e sociali diverse tra loro, che però vengono prontamente intercettate dagli egoismi sovranisti nazionali tradizionalmente poco interessati a un’idea di futuro fatta di pace e solidarietà.
In questo contesto di conflitto, la globalizzazione liberista pare avere esaurito le sue potenzialità di sviluppo solidale. Anche in Europa la concorrenza internazionale è durissima, e crea tensioni sociali che possono diventare croniche, se non si concretizza l’utopia di nuove regole che distribuiscano equamente i benefici della crescita. Sia nel presente che nel recente passato abbiamo assistito a una ossessiva e pervasiva politica di apertura al libero mercato, senza freni in tutte le aree dell’economia, con risultati poco esaltanti. Infatti l’Italia, e non solo, sta vivendo una lunga crisi, che indebolisce alle radici il consenso sociale alle istituzioni democratiche.
E’ ormai indispensabile ripensare a un nuovo paradigma tra tecnologia, sviluppo e investimenti pubblici per una politica di impiego sociale che punti alla crescita produttiva e non gravi sull’indebitamento pubblico, come accade attualmente nel nostro paese. Da qui, un ragionamento sui meccanismi di crescita.
Nell’idea di un futuro attraente, ci può essere spazio per una nuova vigorosa economia? Potrà lo Stato, come già in passato, essere nuovamente protagonista di sviluppo?
Oggi lo Stato ha a disposizione meno strumenti per recuperare sul gap con le altre economie. Nell’immediato futuro, le variabili del nostro modello di sviluppo vanno cambiate dall’azione delle forze sociali, cominciando dai salari che sono nettamente inferiori a quelli degli altri sistemi produttivi, a partire da quello tedesco. Anche gli imprenditori dovranno fare un salto di qualità nella loro visione dell’impresa. Vanno adottate strategie a medio termine sull’innovazione e sulla concorrenza. Occorre, al tempo stesso, saper attuare una politica di investimenti nel sociale per una rinnovata legittimazione dei processi di accumulazione.
Inoltre, è strategico, per la formulazione di un’idea di futuro, il ruolo della Pubblica Amministrazione. I vincoli europei e internazionali, infatti, richiedono un radicale cambiamento o meglio, come scrive Linda Lanzillotta (“Il Paese delle mezze riforme“) di una “palingetica discontinuità” rispetto al passato. è necessario un elevato investimento in formazione e in tecniche organizzative: in altri termini, si dovranno realizzare sia un lavoro profondo sulle persone che un serio investimento negli strumenti metodologici e tecnologici dell’organizzazione amministrativa pubblica. è indispensabile cioè un nuovo DNA nel futuro della Pubblica Amministrazione, la cui attuale e acclarata inefficienza è un indubbio fattore di arretratezza che paralizza qualsiasi prospettiva solida di benessere sociale.
Ragionando di futuro, e di nuovi scenari, va ricordato come, alle origini dell’Unione Europea, vi sia stato un progetto di pace: mettendo in comune risorse strategiche come il carbone e l’acciaio si è evitato il rischio, con questa comunione di beni, di un ipotetico terzo conflitto mondiale nel clima avvelenato e rancoroso del dopo guerra. Questo dato di fatto ci consente di ripensare all’idea di futuro di un’Europa che ha saputo rinunciare ad una parte della propria sovranità nel nome della pace, evitando che i forti interessi nazionali postbellici sortissero effetti disastrosi.
L’Unione Europea dunque, nata da un’idea di pace, è stata anche finora, e alla faccia dei suoi detrattori, motore di sviluppo economico, contribuendo significativamente al benessere dei cittadini europei. Malgrado ciò, davanti a un’idea di futuro il cittadino europeo appare svuotato di contenuti vitali, timoroso di un domani che prevede “nuvoloso e con poco sole” (J. Claude Hollerich, “Civiltà Cattolica” del 20/04/2019). Lo Stato-comunità, ovvero la Comunità di Stati, sembra arretrare rispetto ai nuovi egoismi statali.
La paura di un degrado sociale è molto diffusa, in Europa come in Italia. L’economia e la finanza sono orientate alla produzione di profitto senza obiettivi di creazione di posti di lavoro e quindi di benessere diffuso. Aumentano le disuguaglianze sociali: i giovani temono per il loro futuro in un ambiente sociale che si va degradando, e giustamente scendono in piazza per manifestare a favore di nuove politiche ambientali, denunciando una generazione di adulti che appare ai più egoisticamente materialista e consumista.
Una rara nota di ottimismo sul futuro ci viene dal recente libro di Ferruccio de Bortoli (“Ci salveremo” Ed.Garzanti) che rileva come in Italia ci sia un notevole capitale sociale di alta qualità formato da tante associazioni impegnate nel sociale, che potranno costituire la base popolare per un movimento vivace di rinnovamento, che aspiri a una società più giusta, più unita, in grado di curare i bisogni sociali e di supplire ad una burocrazia inefficiente.
Proprio il cosiddetto terzo settore, con il suo volontariato e le sue associazioni, potrebbe già nell’immediato materializzarsi in un corpo intermedio che favorisca i cittadini che vogliano attivarsi sul tema della solidarietà, anche contro un governo propenso a penalizzarli, magari con un raddoppio dell’imposizione fiscale.
Da questo punto di vista il quadro politico attuale appare incapace di azioni incisive, al di là della facile propaganda elettorale, per risolvere seriamente le problematiche di povertà e disoccupazione, che non dipendono (come qualcuno vorrebbe farci credere) principalmente dall’Unione Europea, ma piuttosto dalla mancanza di regole del libero mercato e dalla inevitabile diffusione su scala globale della cosiddetta “intelligenza artificiale” che sta rivoluzionando il mondo del lavoro.
Anche in Italia il timore di perdere l’attuale benessere accresce un diffuso malessere popolare, che si manifesta in forme diverse e trasversali, contagiando varie categorie di cittadini. Tuttavia, la storia passata e le recenti vicende umane ci hanno insegnato che senza speranze, anche utopistiche, non si va molto lontano.
Il futuro non ce lo può garantire nessuno: dobbiamo meritarcelo, reinventandolo (sicuramente sarà diverso da come lo pensavamo fino a poco tempo fa) e conquistandolo con la forza delle nostre capacità e della nostra intelligenza. Umana.
L’ultima votazione europea sembrerebbe indicare che una parte consistente dell’elettorato italiano propenda per un governo di destra. E’ un risultato che è in contraddizione con la recente storia politica e sociale dell’Italia Repubblicana; soprattutto alla luce del primo provvedimento invocato dal vincitore delle elezioni, l’On. Salvini, cioè l’applicazione della cosiddetta “flat tax”, un’imposta decisamente a favore dei ceti sociali più ricchi.
La politica della “flat tax” viene proposta contro la generale domanda di giustizia fiscale, che ha attraversato nel tempo le forze sociali italiane. Le stesse che si sono sempre dichiarate a favore di una significativa redistribuzione del reddito.
Gli stessi elettori di destra richiedono al Governo una politica di crescita economica. Ciò non è ottenibile con una politica all’insegna della “flat tax“, che nell’attuale contesto di mutamenti strutturali dell’economia non produrrebbe effetti moltiplicativi sull’economia reale, essendo portatrice essenzialmente di liquidità alla finanza speculativa.
Già dalle prime mosse del “Governo Salvini” si può rilevare che il voto europeo è stato una scelta di un programma in contraddizione con gli interessi di una buona parte degli stessi elettori che hanno votato Salvini; cioè, un programma che a breve farà sentire il proprio peso sociale negativo. Infatti, la “flat tax“ è il primo passo di un percorso che accentua le disuguaglianze sociali, mettendo in pericolo la stessa democrazia.
E’, invece, auspicabile che i ceti medi e popolari ritrovino se stessi e la propria coscienza repubblicana nella solidarietà, nel dialogo sociale e nella difesa dei più deboli.