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Herr, die Not ist groß! Die ich rief, die Geister Werd ich nun nicht los. […] |
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Signore, il pericolo è grande! Gli spiriti chiamati per magia, Non riesco a liberarmene. […] |
J.W Goethe, L’apprendista stregone
(Ballate, Garzanti, 1975, p. 89)
La ballata di Goethe tratta dall’antica favola di Luciano di Samosata. Può essere l’immagine che ci fa da guida nella interpretazione delle vicende europee che si dipanano sotto i nostri occhi in questa prima metà di aprile anno domini 2020.
I dibattiti ad oltranza in diretta Zoom fra Ministri, Commissari, Capi di Stato e di Governo; i fiumi di inchiostro dedicati – da sofisticati giornali economici così come dalle più modeste gazzette locali – ad illustrare tecnicismi finanziari; le riunioni concitate dei governi nazionali e dei partiti di opposizione; gli ancora più concitati talk show; le rapide ricollocazioni delle pedine sullo scacchiere e il ribollire del mondo social sul futuro dell’Europa: tutto questo ricorda molto da vicino le ultime fasi della ballata, allorché “l’acqua irrompe nella sala e su ogni gradino” e le energie di una natura forzata si rifiutano di ritornare nel loro corso originario, dopo che l’ingenuo apprendista le ha suscitate.
Eucrate si chiama questa fiaba. Eucrate il suo antichissimo nome: più che una semplice assonanza – si potrebbe dire – con il brutto e abusato neologismo eurocrate!
Il vero e proprio mito dell’Unione Europea come percorso di natura geopolitica, destinato a sfociare in modo naturale ma inesorabile in una nuova comunità politica – in grado di competere adeguatamente con USA, Cina, Russia – ha rappresentato una forzatura della conformazione naturale della reale geopolitica del continente. Cioè della reale dinamica degli interessi in campo. Ma ha incarnato un mito: quello dell’apprendista stregone, appunto.
Ed è stata essa stessa un mito.
Come ogni mito degno di questo nome, ha messo in moto forze potenti: è iniziata una danza, dapprima straordinaria, eccitante, esaltante: il rituale magico funziona!
Il grande disegno funzionalista si dispiega davanti agli sguardi ammirati e carichi di speranza di quattrocento milioni di potenziali con-cittadini, memori degli orrori delle passate guerre. Il mito dell’approdo ad un futuro diverso in cui le conflittualità, gli errori, le tragedie, le miserie secolari cumulate in un così vasto territorio potessero essere superate. L’ampliamento del territorio interessato, che diventò in tal modo vastissimo, caricò il mito di nuova forza: modernità, pace, benessere e democrazia (anzi irreversibilità della democrazia). Tutto ciò ha avuto una forza trascinante.
Pochi scettici, ai margini.
Nel frattempo l’Europa – questa Europa mitica – è entrata a far parte della vita politica di tutti i paesi membri. Del suo linguaggio, ma anche delle sue dinamiche.
E così i governi nazionali, che devono lottare duramente ogni giorno per essere confermati, hanno cercato di appropriarsi della energia suscitata dal mito-europa. Egualmente, le forze di opposizione per conquistare la maggioranza e rovesciare gli equilibri. La tentazione di usare il mito per conquistare consensi è fortissima: si sa, la politica si nutre anche di miti.
Quante scelte sostenute con un’unica – dirimente – motivazione: “Ce lo chiede l’Europa”. Quanti governi, per rimanere in sella, hanno chiesto a Bruxelles qualche trattamento di favore: ad esempio – per un paese come il nostro – ottenere margini di flessibilità in occasione della manovra finanziaria. Per poi tornare in patria con i gradi europeisti guadagnati sul campo. Per altri governi (un nome a caso: la Germania), far approvare normative comunitarie attentamente vagliate e validate dall’industria nazionale (ben organizzata come lobby nazionale e europea, contrariamente alla nostra), oppure ottenere regolamentazioni finanziarie gradite alle proprie banche. Il tutto per consolidare i rapporti fra governo e industria nazionale, fra governo e banche nazionali. E se il tutto andava – però – a svantaggio delle economie di altri paesi concorrenti, che importava? Ormai c’era il marchio di qualità UE.
Ma il gioco funziona anche dalla parte opposta. Nulla di più semplice che fabbricare e fare uso quotidiano di un “contromito”, che può essere quello di un’Europa avara, indifferente alle sofferenze del popolo che più patisce la crisi o – esattamente all’opposto – il contromito di un’Europa dissipatrice, non sufficientemente rispettosa delle virtù etiche di popoli che hanno sempre rispettato le regole e troppo benevola invece nei confronti di chi ha solo sperperato. Insomma, buone fabbriche per la cattura di certe ondate di risentimento popolare. O addirittura il contromito più fantastico di tutti: quello di una controEuropa in cui gli interessi nazionali finalmente siano riconosciuti. Tranne scoprire, poi, che gli interessi nazionali di ciascuno (superficialmente evocati) hanno un’alta dose di egoismo ed incultura e quindi non trovano di meglio da fare che … confliggere fra loro piuttosto che saldarsi in un fronte!
Insomma, un gioco intricato, nel quale le possibilità di scomposizione e ricomposizione di schieramenti sono pressoché infinite: la danza delle scope, dell’acqua, dei pestelli può continuare più o meno a lungo, con tante varianti.
Ma – attenzione – l’andamento è in crescendo! Walt Disney è bravo quasi quanto Goethe nel sottolineare questo particolare.
Ed oggi siamo arrivati quasi alla fine della ballata.
Perché le forze del mito, una volta suscitate, dimostrano ben presto di obbedire solo alle loro dinamiche che – ahimè – non corrispondono a quelle del giovane apprendista.
E se l’Europa deve fare questo salto di qualità tanto atteso e divenire una comunità politica, quale momento migliore di una crudele epidemia per realizzare questa fondazione, o almeno intraprendere – con una prima messa in comune dei propri destini – questo percorso? Non la mutualizzazione di tutti i debiti pregressi (come fecero gli Stati Uniti al momento della loro fondazione) questo no. Ma almeno un timido inizio di un percorso comune? Con mille cautele, regole, controlli, solo per le spese sanitarie? Nulla più che una manifestazione di simpatia, in fondo.
C’è una grande verità – oggi – nelle ragioni dell’Italia (governo e opposizioni uniti in questo). Se il mito è autentico, fondativo di una vera danza comune, il momento è questo: il momento in cui Zeus, in sembianza di toro, si innamora della splendida figlia di Agenore e la porta via con sé.
Altrimenti occorre cambiare mito e ricorrere – come suggerisco in questa nota – alla favola di Luciano, illustrata per noi da Goethe e Walt Disney.
E infatti il romantico rapimento non avviene. Non può avvenire. La posizione italiana non può prevalere, perché è priva di realismo.
Poi qualcuno ci racconterà che nel comunicato stampa, ecc. ecc. Che tutti sono usciti vincitori. Che è un passo in avanti è stato fatto. Che se Europa proprio non è salita in groppa al toro per farsi rapire, comunque gli ha concesso una carezza, ecc. ecc.
Ma la verità è che il rapimento non è proprio avvenuto. Perché ciò non poteva accadere.
Ricordiamo anche – per inciso – che chi diceva questo un mese fa era colpito da un’accusa infamante: euroscetticismo.
In verità da questa vicenda – certamente non ordinaria – usciranno perdenti, inevitabilmente, tre posizioni politiche:
- coloro che più fermamente e onestamente hanno creduto al mito della costruzione di un’UE (e di un euro) come dato politico di unificazione del continente e quindi hanno più fermamente creduto nella battaglia degli eurobond;
- coloro che diranno che tutto è ok; tutto può continuare come prima perché la danza non prevede alcun crescendo: è un movimento secolare, circolare. In realtà appartengono a questo secondo gruppo molti degli appartenenti al primo, neoconvertiti al realismo del giorno dopo;
- coloro che hanno proposto l’asse continentale di segno sovranista, che è una evidente e improponibile contraddizione in termini, naufragata ancora prima di nascere.
Chi uscirà vincitore è facile a dirsi, per lo meno nel breve periodo: chi ha puntato sul “contromito”, i tanti fronti (nazionali) degli scontenti – in Italia come nel resto del continente – che sfrutteranno la situazione per dirne di tutti i colori. Ccercando comunque di far dimenticare – e sarà bene invece ricordarglielo – la famosa proposta del fronte sovranista internazionale.
E’ evidente che tutti coloro che non concepiscono la politica come agitazione demagogica del malcontento (non solo in Italia, ma in tutta Europa) avrebbero avuto interesse ad una soluzione diversa: gli eurobond, appunto. Sia pure in una versione intiepidita. Ma se questo non è accaduto non è per ottusità di qualcuno, ma per impossibilità di reggere – sul piano interno – le conseguenze. Il mito, appunto, è una forza che si autonomizza e – alla fine – non ubbidisce ad alcun comando.
Adesso il rischio per tutti è grave e la politica, in senso alto (se ancora c’è una tale politica) deve mettersi all’opera alacremente sul dossier Europa.
Il rischio è grave per almeno tre motivi:
- perché è grave la recessione alla quale andiamo incontro, particolarmente i paesi più fragili, fra cui ovviamente l’Italia, dove sono in arrivo tempi di debito pubblico ai limiti della sostenibilità, di spread, di depressione economica e disoccupazione, di patrimoniale e tagli a stipendi e pensioni;
- perché l’Europa da mito esaltante può trasformarsi rapidamente in catalizzatore del malcontento. E questo non solo in Italia. Anzi in Italia in forme molto meno aggressive che in altri paesi. Se si pensa, ad esempio, all’Afd tedesca che sta spiazzando completamente una forza baricentrica per quel sistema politico come la CDU-CSU, forse si arriva paradossalmente a dire che – per il bene di tutti – è meglio che gli eurobond non si facciano perché questo rischia di scatenare forze assai preoccupanti;
- perché le tensioni geopolitiche sono oggi – dopo la caduta del Muro – molto più forti e il territorio europeo è segnato da ben 25 anni non solo da crisi economiche di varia intensità e da crisi immigratorie, ma anche (forse abbiamo voluto non accorgercene) da guerre: dalla Lituania al Donbas, passando per la Jugoslavia, il Kosovo, il Caucaso, ecc. Guerre che si sono consumate e si consumano sul suolo europeo.
Infine, c’è una quarta difficoltà che però è – a mio parere – l’esatto punto da cui ripartire: il dossier Europa non può essere messo da parte, come se nulla fosse. Ed è un dossier complicato perché l’Europa che abbiamo costruito purtroppo ha numerosi difetti “strutturali”. Malfunzionamenti, asimmetrie, inutili complicazioni, opacità.
La favola di Luciano in tutte le sue rivisitazioni, come tutti sanno, finisce allorché arriva il mago vero – colui che è dotato della vera sapienza – e rimette ciascuna cosa al suo posto.
Varie cose nei prossimi mesi e anni, andranno rimesse al loro posto. Con pazienza e sapienza. E questa sarà la funzione di una classe politica europea – allo stesso tempo ispirata e razionalista – in grado di disintossicare dal mito le lobbies e le opinioni pubbliche nazionali (anziché alimentarle maldestramente), persuadendole con pazienza e abilità che l’Europa non è e non sarà un incubo se non sarà più concepita da nessuno come un terreno di caccia. Che l’Europa non è uno Stato federale e probabilmente mai lo diventerà – ma neanche una prigione – perché nasce da una adesione libera e volontaria di 27 stati democratici ai suoi istituti, da ciascuno dei quali ciascuno stato potrà liberamente recedere o meno, secondo la volontà democraticamente espressa dal proprio popolo sovrano. Che istituti quali la moneta e il suo governo, le politiche di bilancio, la struttura istituzionale non sono tabù intoccabili e ciascun paese ha il diritto di discutere liberamente e razionalmente – fuori da ogni mitologia e da ogni ricatto – di quali siano le compatibilità fra tali istituti, i propri valori costituzionali, la propria struttura economica, le proprie scelte strategiche, le proprie esigenze di trasparenza e di libertà.
Enrico Seta