La riflessione sul partito, sulla forma e sulla funzione che un partito politico deve assumere in un contesto “altro” rispetto a ciò che abbiamo sperimentato nel secolo scorso, non si esaurisce, ad esempio nel nostro stesso caso, con la costituzione del partito, come tale. Anche perché la questione non si risolve in astratto, su un piano meramente teorico, ma deve necessariamente passare attraverso l’ esperienza in cui ci si inoltra, intanto “facendo” in concreto il partito, cioè esercitando sul campo un ruolo di iniziativa politica, suo tramite.
Non c’è una forma pre-ordinata, universale e perenne e tanto meno talmente appropriata da funzionare di per sé.
Nel secolo scorso o meglio nel secondo dopoguerra i partiti, in particolare le grandi forze popolari, erano “di massa”, cioè contavano milioni di iscritti e già questo, di per sé, faceva la differenza. Si trattava – e forse non poteva essere diversamente per formazioni immerse nel clima della guerra fredda, in un Paese posto sul confine della cortina di ferro – di forze totalizzanti ed onnipresenti. Anzi, si potrebbe dire, onnivore. Cioè, inglobavano nella propria sfera d’azione qualunque espressione sociale o culturale potesse tornare utile alla causa. Insomma, avevano “militarizzato” i rispettivi campi.
Nel nostro caso, si parlava di collateralismo per indicare un rapporto di affiancamento al partito da parte di formazioni sociali, culturali o ecclesiali che conservavano la loro autonomia, ma intrattenevano con il partito un rapporto, in un certo senso, subordinato. Non concorrevano alla sua elaborazione politica e programmatica, ma venivano, per lo più, arruolate nel momento elettorale. Non a caso restava aperto ed insoluto il tema del rapporto tra il partito ed il suo background culturale. Il che, si potrebbe dire, si risolveva occasionalmente, come fu, ad esempio, nella cosiddetta “assemblea degli esterni” del 1981, oppure cercando di blandire determinati ambienti, ricorrendo a candidature parlamentari che, in qualche misura, li rappresentassero. Senonché tale rapporto non ha mai dismesso una intonazione piuttosto mercantile, del tutto contingente e di scarsa efficacia.
Eppure, sia il PPI di Sturzo che la DC nascevano da lunghe stagioni di sedimentazione sociale e di accumulazione culturale del movimento cattolico, dapprima nella stagione del “non expedit”, poi nell’emarginazione del ventennio.
Ad ogni modo, senza questa connessione fluida e senza questa corrispondenza biunivoca tra le sorgenti socio-culturali della sua ispirazione ed il partito, quest’ultimo progressivamente si definiva sempre più secondo quelle ragioni del potere che, peraltro, in quei frangenti storici, rispondevano a quella che, rovesciando i termini di un’antica querelle, potremmo chiamare la “conventio ad includendum”.
In questo quadro, la DC non ha saputo o non ha potuto essere alternativa a sé stessa, secondo l’ammonimento del Presidente Moro. Non a caso, sull’onda dei fermenti suscitati nel mondo cattolico dal Concilio e poi nel clima del ‘68, il collateralismo mostra crepe sempre più evidenti e, infine, si frantuma. Anzi, si dovrebbe parlare già, fin da allora, di primi accenni di quel processo di diaspora che esploderà più avanti e che tuttora tiene la scena.
Oggi un partito deve, al contrario, concepirsi snello, come una testa di ponte o poco più, insediata in un territorio da esplorare, di cui conoscere le insidie, ma soprattutto le potenziali ricchezze, per poterne ridisegnare le mappe. Anziché asservire alla sua battaglia tutto quel che può includere nel campo del suo posizionamento, dovrebbe progressivamente affinare quella capacità di sintesi politica che rappresenta il suo compito proprio, in maniera tale da porla a servizio di mondi, orientati ad altri compiti e che pure, per dirigere meglio i loro passi nei rispettivi settori di interesse, hanno bisogno di guardare a questa competenza “specialistica”, cioè ad una lettura “politica” degli eventi.
Questo può essere vero, ad esempio, per le numerose “liste civiche” che nascono in ambienti a noi vicini e che nell’esercizio della loro loro attività di governo locale, avvertono l’esigenza di coltivare un rapporto con un ambiente politico che vada oltre la circoscritta area territoriale del loro insediamento amministrativo. Insomma, non si tratta più di concepire una piramide o una gerarchia, ma piuttosto una rete di ruoli e di funzioni che mettano in atto una ricorsività di rapporti che sia collegiale, paritaria, unitaria. Il tramite che può legare o meglio, per chiarire come non vi sia nessun vincolo costrittivo, liberamente connettere queste diverse attitudini in un impegno condiviso è la coscienza del compito che assumiamo nel solco dell’ispirazione cristiana. La consapevolezza che di tale compito possiamo intuire la direzione di marcia, ma non misurare la portata.
Dobbiamo avere viva la percezione che stiamo tutti – chi fa il partito e chi fa cultura o animazione sociale o azione amministrativa locale – dentro un disegno che ci trascende, che va oltre la personale dimensione di ciascuno di noi.
Si tratta, quindi, di collocarci mentalmente in un’ottica che trovi semplicemente ridicolo avanzare primogeniture, rivendicazioni di ruolo, gelosie o rivalse, rivincite o rivalità. Le quali, oltre a complicare inutilmente la vita a chi se ne fa interprete, alterano quell’humus comportamentale di correttezza in carenza del quale anche il disegno intellettualmente più elegante rischia in ogni istante di scivolare su una buccia di banana. Vicende del genere ne abbiamo conosciute più di una in questi ultimi decenni.
Dobbiamo essere inclusivi, senza essere vischiosi, senza la pretesa di uniformare alle nostre ragioni un mondo ampio ed articolato che condivide con noi la stessa ispirazione cristiana, ma la declina secondo quella pluralità di sensibilità e di esperienze che è libera e varia come è varia la vita nel suo libero fluire. Non c’ è nessun modello che si possa, ad esempio, codificare in una regola statutaria o comunque una norma che, elaborata da noi, si possa imporre.
Dato per scontato che il partito è un partito di persone e non una federazione di gruppi, è necessario sperimentare, con chi accettasse di concorrere al nostro disegno nel pieno rispetto della propria autonomia, una intelaiatura di collaborazione e di reciproco coinvolgimento che potrà essere asseverata solo alla prova dei fatti. Insomma, dobbiamo concepire il partito non come una monade, ma come un’entità vitalmente connessa con una più vasta area di risonanza che assicuri quello scambio tra momento politico e profilo socio-culturale che è stato essenziale anche per le trascorse esperienze del cattolicesimo politico nel nostro Paese. Resta ferma l’architrave del nostro progetto: schietta ispirazione cristiana ed autonomia.
Domenico Galbiati
Immagine utilizzata: Pixabay

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