Ho molto apprezzato i tre recenti interventi sugli attuali problemi dell’ordine europeo e dei rapporti dell’Occidente (Stati Uniti e Unione Europea) con la Russia e con la Cina pubblicati su Politica Insieme. L’aspetto più importante e in un certo senso più originale di quelle considerazioni era il discostarsi dal manicheismo dei nostri media occidentali, che sono soliti vedere i torti solo nelle iniziative della controparte. Assai ragionevole è invece l’invocazione della consapevolezza che un ordine europeo, saldo e stabile, deve coinvolgere tutti i principali attori in gioco nel rispetto degli interessi di ognuno di essi.

Il problema è che, come osserva giustamente Maurizio Cotta (CLICCA QUI), “il crollo dell’URSS ha ridisegnato ampiamente i confini e gli equilibri del nostro continente, ma non è stato seguito da un assetto di pace solido e mutuamente accettato tra le due realtà politiche principali del continente”: l’Europa e la Russia. Il problema è che quell’assetto concordato al momento della conclusione della guerra fredda, per la precisione nei colloqui di Gorbaciov e Bush a Helsinki nel settembre del 1990, con la scomparsa di Bush dall’orizzonte politico americano, è rimasto lettera morta.

Nella capitale finlandese, i due presidenti s’incontravano alla vigilia della riunificazione della Germania e dell’intervento americano nel Golfo Persico. Questi erano due sviluppi di cui l’Unione Sovietica si faceva carico (“burden” nelle parole di Gorbaciov) per rimanere coerente al “new thinking” del suo leader e favorire l’instaurazione di quel “new international order” che altro non sarebbe stato che una gestione concorde e dimentica degli egoismi nazionali fra le due superpotenze (“axis”, sempre secondo Gorbaciov) di quel “liberal international order” i cui principi sarebbero stati riaffermati a Parigi, nel novembre successivo, nella Carta della Nuova Europa.

Pur dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, la Russia di Yeltsin rimaneva coerente con la visione che Gorbaciov aveva incominciato ad enunciare già nel suo intervento alle Nazioni Unite nel dicembre dell’88, come appare evidente dal colloquio del ministro degli esteri Kozyrev con Nixon in visita a Mosca nella primavera del ’94. Alla domanda su quale fosse il suo “concept” dell’interesse nazionale della Russia rispondeva che in passato il suo paese aveva sofferto gravemente per il concentrarsi troppo intensamente sui propri interessi, a spese del resto del mondo. Ora era giunto il momento, aggiungeva, che la Russia pensasse più in termini d’interessi universali e di valori umani. Gli stessi concetti ripetutamente affermati da Gorbaciov nelle sue uscite sui rapporti internazionali.

E’ opportuno ricordare che all’origine di molte delle attuali instabilità vi è l’abbandono da parte dell’Occidente di quello che chi scrive si ostina a definire terzo dopo-guerra (post guerra fredda) e dei principi e delle prassi operative di quel “liberal international order” che aveva reso possibile il successo dei valori occidentali nel confronto con il blocco sovietico, provocandone la dissoluzione. Uno dei cardini della strategia della NATO era stato quello della   stabilità, tant’è vero che nel suo ultimo concetto strategico il termine “stability” ricorreva ben 15 volte.

Negli anni novanta gli Stati Uniti, ormai nella condizione di iperpotenza, secondo un’efficace definizione francese, avviavano una politica di destabilizzazione dei regimi dell’Europa orientale, del Nord Africa e del Medioriente intesa a favorire l’instaurazione di sistemi politici democratici, con risultati assolutamente deludenti e contraddittori, anche per l’assenza di una tradizione politica di questo tipo in quei paesi. Nel far ciò contravvenivano al dettato della Carta di Helsinki del 1975, che, impegnando l’Unione Sovietica all’osservanza dei suoi principi, ne aveva avviato il cammino verso la “glasnost” e la “perestroika” di Gorbaciov. Principi solennemente riaffermati a Parigi nel novembre del 1990 nella Carta della Nuova Europa sottoscritta dall’Unione Sovietica di Gorbaciov, questa volta pienamente partecipe dei valori enunciativi.

Anche le modalità dell’allargamento della NATO adottate dagli Stati Uniti e dai loro alleati occidentali ignoravano il deterioramento provocato delle condizioni di sicurezza della Federazione Russa, che vedeva un blocco militare di estremo spessore avvinarsi considerevolmente alle proprie frontiere. Le ricerche in merito dell’Accademica americana Marie Luise Sarotte, e il modesto contributo di chi scrive, hanno evidenziato come quelle modalità di allargamento dell’Alleanza avessero violato lo spirito, se non la lettera, delle intese che avevano posto fine alla guerra fredda.[1]

In ogni caso, la prevalente tendenza dei commenti occidentali a considerare la piazza e le sue violenze come espressione della reale volontà di un popolo e definire i regimi che ne scaturiscono, o ne possono scaturire, come democratici non mi sembra che sia coerente con l’impegno profuso nel secondo novecento dalle forze politiche realmente democratiche, quali la nostra Democrazia cristiana, nel contenere i tentativi di sovversione dell’ordine politico esistente da parte della piazza mobilitata in più di un’occasione dalle forze politiche di estrema sinistra.

Su tutto ciò vi sarebbe ancora molto da scrivere. Prima di concludere, però, voglio riprendere il tema dell’Ucraina ricordando la ragionevolezza delle conclusioni di Maurizio Cotta che auspicava la creazione di “un’area di cooperazione economica con l’Unione Europea che includendo l’Ucraina non crei condizioni di esclusione per la Russia” ribadendo indirettamente le acute obiezioni che il nostro Frattini oppose inutilmente all’impostazione della “Eastern Initiative” dell’Unione Europea, che escludendo la Russia dai programmi di cooperazione che avrebbe reso possibili, creò le premesse della crisi di oggi.

AntonGiulio dé Robertis

 

[1] M.L. SAROTTE, Not One Inch, N Y. 2022; A.G. de ROBERTIS, Russia 1991: a Rhyme of History, Quaderni di Scienze Politiche, Fasc19, Milano 2021.

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