C’è chi avrebbe preferito che il nostro impegno nel solco della visione cristiana dell’uomo e della vita, si trattenesse sul piano della cultura e dell’azione sociale, anziché approdare alla formazione del partito politico. Senonché tra riflessione culturale, animazione sociale ed iniziativa politica, nel senso compiuto del termine, corre un rapporto vitale e ineluttabile, se pur si volesse evitarlo.
Lo sviluppo delle competenze e, soprattutto, la formazione delle coscienze rappresentano sicuramente traguardi importanti, ma appunto per questo non meritano che la loro forza propulsiva venga ad essere impigliata, compressa e soffocata nelle maglie di un sistema politico ossificato e in debito di ossigeno.
La “trasformazione”, quel processo di cambiamento profondo che il nostro Manifesto ( CLICCA QUI )ha preconizzato prima della pandemia ed ora appare necessario anche a chi fin qui non ne aveva avvertito l’urgenza, deve prendere le mosse anche da un reale mutamento del nostro sistema politico inceppato. In questa ottica, è opportuno anche guardare con qualche maggior consapevolezza al compito inderogabile della politica, perfino con un’apertura di credito nei confronti degli attori che sono chiamati ad interpretarla, nel quadro, del resto, di quel radicale cambiamento della classe dirigente che, per parte nostra, intendiamo perseguire.
Dei “politici”, d’altra parte, si può dire tutto il male che si vuole, ma va riconosciuto che sono tra i pochi soggetti per i quali gli esami non finiscono mai. Li ripetono a scadenza fissa ed, anzi, spesso anticipandone, più o meno inopinatamente, i tempi, ed a fronte di una commissione d’esame talmente ampia e spesso pregiudizialmente ostile.
Forse solo gli artisti sono nella stessa condizione. Ad esempio, i cantanti lirici, esposti ogni volta agli applausi o piuttosto ai fischi che piovono dal loggione e possono stroncare una promettente carriera. E gli imprenditori quotidianamente a sbalzo a fronte delle bizze del mercato.
Poi vi sono categorie professionali, accademiche o altro – ognuna debitamente corredata dalla rispettiva casta – ad esempio nel mondo della stampa e della comunicazione o della stessa cultura, opinionisti ed affini, intellettuali d’antan o engagé, laddove, raggiunta una posizione apicale, si diventa inamovibili. Cosicché, almeno taluni siedono sugli allori e danno un robusto concorso a quella stagnazione burocratica che poi, giustamente, si chiede alla politica di svellere dal corpo del Paese.
Peraltro, oggi la politica non è più ascrivibile solo al cosiddetto “palazzo” – livelli istituzionali o di partito che siano – bensì mostra il carattere di una funzione diffusa. La quale compete a chiunque la politica la sappia fare, a cominciare dai mille articolati ambiti della società civile. Se, come è giusto che sia, per “politica” non intendiamo solo l’esercizio di una carica istituzionale o, comunque, la gestione di un ruolo di potere, ma, anzitutto, quel “pensare politicamente” che ricorre spesso negli scritti di Giuseppe Lazzati e può e dev’essere di tutti.
C’e’ una varietà di stili di “pensiero” ed una pluralità di “intelligenze”. L’uno e l’altra, se considerati in funzione della politica, hanno una specificità per nulla trascurabile ed evocano una attitudine cognitiva e mentale, psicologica ed emotiva – o meglio un delicato equilibrio tra questi versanti – che sarebbe bene venisse sperimentato e via via maturato e fatto proprio da tutti.
Magari cominciando da giovani quando la maggior plasticità corticale decisamente aiuta. Un equilibrio che, a sua volta, ha a che vedere anche con l’essere la politica la più alta forma di carità, secondo l’ammonimento di Paolo VI, che, per la verità, riprende l’espressione di un altro grande pontefice milanese, Papa Ratti. Infatti, tale equilibrio le conferisce la facoltà di penetrare a fondo l’ordine delle cose e, dunque, la capacita’ di evocare un impegno altrettanto profondo e coinvolgente di responsabilità personale.
Insomma, la politica sarà pure una brutta faccenda, che le persone perbene fanno bene a scansare o, tutt’al più, a maneggiare con le pinze e con i guanti per non smarrire la loro verginale ed immacolata innocenza, eppure è una cosa che, se presa per il verso giusto e rispettando l’appropriata posologia, fa senz’altro bene. Anzitutto, è una grande scuola di realismo e di umiltà, salvo che per qualche imperterrito paranoico (e la politica, questo sì va ammesso, è un campo che ne attira spesso più d’ uno).
Nella norma, però, chi fa politica non può’ che constatare l’abissale divario che corre tra le capacità personali di cui sente di poter disporre e la dimensione spropositata del compito che gli si para davanti. Del resto, chi milita in un partito accetta di metter a fattor comune il proprio pensiero, la propria autonomia di giudizio, senza steccati, senza badare a classi o categorie sociali, senza supponenza, mettendo insieme esperienze e competenze differenti in un processo, magari confuso, di elaborazione comune.
Non è cosa da poco. Rappresenta, a suo modo, un nodo di aggregazione, di coesione che contrasta la “liquidità” del contesto civile. “Realismo” – ed anche questo si apprende non tanto dai sacri testi della politologia, quanto dai marciapiedi della militanza che sono la vera scuola della politica attiva – vuol dire constatare che le questioni in campo sono sempre più complesse, sovrapposte ed intrecciate di quanto non si vorrebbe.
Cosicché la pretesa di semplificarle – tipica di un certo populismo – sfrondandole ad ogni costo, di fatto spesso le riduce ad un torsolo che ne tradisce del tutto la sostanza. Non si tratta, al contrario, di cedere inermi alla complessità, ma piuttosto di dipanarla, sciogliendone con pazienza i nodi, uno dopo l’altro, scoprendo, nelle sue pieghe più riposte, la ricchezza inesauribile della realtà. Ed è qui che si apprezza, se è lecito dirlo, quel fascino della politica che va oltre la stessa attraente intensità della cultura.
La quale, nelle sue pur raffinate analisi, nelle simulazioni e nelle architetture concettuali con cui cerca di catturare la struttura profonda del reale, pur non accede, in modo diretto ed immediato come fa la politica, al “vissuto” concreto, verrebbe da dire al “pathos”, alla sofferta dimensione “popolare” delle vicende che, giorno per giorno, attraversiamo.
L’impegno sociale, in tutte le sue forme, i cenacoli culturali, i think tank e quant’altro hanno sicuramente grandi meriti ed una intrinseca vocazione politica.
Peraltro, spesso altro non sono che un approccio prudente alla militanza di questo o quel certo esponente, che con discrezione si propone, in attesa di essere invitato ad assumere un ruolo politico attivo. Ma, in ogni caso, impegno culturale e presenza sociale pur sempre necessitano di chi, anche raccogliendo la fiaccola della loro progettualità, osi, come si dice in gergo, metterci la faccia. O meglio si fa carico di andare alla prova dei fatti, affrontando quella fattuale, concreta e ruvida dimensione del reale che è sempre piùcomplessa, ricca di imprevisti, di risvolti sfuggenti di quanto non possa presumere ogni analisi previa.
Insomma, i piani di volo sono indispensabili, ma poi al pilota compete prendere in mano la cloche e, se c’e’ un’emergenza, gestirla con quella freddezza che non si e’ tenuti ad avere nel tepore ovattato della propria biblioteca.
Insomma, ci vuole una marcia in più ed accettare di bruciarsi le penne nel calore della contesa, al di la’ del confine che la separa dall’olimpica serenità degli studi. Né si può continuare a pensare che studiosi, tecnici ed esperti siano le vestali della verità e coloro che fanno politica attiva dei grassatori assatanati di potere.
Forse se vogliamo aprire una nuova stagione civile, dobbiamo anche riflettere come la trasformazione di cui avvertiamo l’urgenza debba passare pure dalla capacità di restituire l’apprezzamento che merita alla militanza politica ed alle forze organizzate, ai partiti in cui prende corpo.
Può sembrare sconveniente dirlo, ma stiamo attenti a non intingere tutti, indifferentemente e quasi senza rendercene conto, anche con le migliori intenzioni, il nostro tozzo di pane nella stessa brodaglia demagogica dove i populisti intingono il loro.
Domenico Galbiati

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