La logica perversa di una contrapposizione dura, volutamente coltivata fino al limite estremo di una sostanziale incomunicabilità, tra gli opposti schieramenti dell’Italia bipolare ha gravemente compromesso il ruolo proprio delle istituzioni democratiche e, conseguentemente, la percezione del loro valore che ne hanno i cittadini.

La dinamica “amico/nemico”, fondata sullo studiato disconoscimento reciproco degli schieramenti in campo, ha avvelenato i pozzi cui attingeva la fiducia di un popolo ancora incamminato verso una maturazione più compiuta della propria coscienza nazionale.

“Tangentopoli” ha rappresentato un momento grave di smarrimento e di sfiducia che ha lasciato il segno e non poco ha concorso a quella disaffezione disincantata e scettica, a quel tanto fors’anche di cinismo che, in tutto o in parte, è rifluito nel populismo demagogico che lamentiamo oggi, ma di cui vanno riconosciute radici lontane.

Le istituzioni che reggono l’ordinamento democratico di un Paese costituiscono lo spazio ideale in cui la coscienza di un popolo via via si struttura, prende forma e consapevolezza di sé, traccia l’orizzonte di un destino comune che dà corpo a quel sentimento di solidarietà che corrobora l’identità personale di ciascuno e ne rafforza lo spirito di cittadinanza. Ma i decenni seguiti a Tangentopoli, anziché detergere e recentare una ferita lacero-contusa, slabbrata ed aperta, l’hanno infettata e resa purulenta.

Le istituzioni sono state il campo aperto di scontri che, pur muovendo da legittime ragioni di reciproco dissenso, si elevavano a motivi identitari, da poter essere agitati come bandiere con le quali intestarsi i territori di un pericoloso “risiko” elettorale. E’ andato in onda uno scontro di potere fine a sé stesso, senza un’effettiva aderenza ai problemi degli italiani, al vissuto delle famiglie, alle dinamiche del lavoro.

Il linguaggio della politica ha assunto intonazioni sprezzanti e livide, senonché la violenza verbale è solo l’incipit e la spia di una devastazione più ampia. Al dibattito parlamentare, si è sovrapposto o addirittura sostituito il pane quotidiano di talk-show che hanno spettacolarizzato la politica, trasformando il confronto argomentato della democrazia in un Far-West di pistoleri, giocatori d’azzardo, sceriffi e ladri di cavalli.

Non a caso c’è che si è davvero proposto di ricreare una comune cifra di identità degli italiani fondata, piuttosto che su quei sentimenti di solidarietà, di fratellanza, di tolleranza tipici della nostra gente, su parole d’ordine intrise di rancore, di sospetto e diffidenza reciproca, pronte ad avvitarsi perfino in odiosi atteggiamenti xenofobi, che fanno a pugni con il comune sentimento di umanità, in cui, credenti e non credenti, siamo chiamati a riconoscerci insieme.
Ora è giunto il tempo di cambiare verso e, per quanto ci riguarda, pur consapevoli dei nostri limiti, speriamo di concorrervi, fin d’ora, con l’ Assemblea che vara il partito di chiara ispirazione cristiana ed autonomo cui stiamo dando vita.

La cultura del personalismo d’impronta cristiana cui ci ispiriamo ha molto da dire anche sul piano della cultura istituzionale. Ci dice, anzitutto, come la prima inderogabile finalità delle istituzioni non possa che essere rivolta a creare e custodire le condizioni che consentano a ciascuna persona di realizzare compiutamente se stessa, di portare a piena maturazione le proprie potenzialità, di sviluppare quello che Edith Stein definisce il “compito originario” in cui ciascuno è chiamato a riconoscere la propria inderogabile ed irripetibile unicità, come patrimonio dell’intera comunità cui appartiene.

Vogliamo concorrere ad aprire un nuovo cammino e sappiamo che le nostre forze bastano solo ad accendere un processo ed un’impresa che merita lo sforzo congiunto di tutti coloro che credono.in una reale prospettiva di “bene comune”.

Domenico Galbiati

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