Il cuore e la sostanza del programma di un partito di ispirazione cristiana – in modo del tutto particolare in una fase storica come quella che ci e’ dato vivere – non può che essere la promozione di una “nuova” stagione politica, fortemente incardinata sui “diritti sociali”.
Anzi, dovremmo chiamarli – come suggerisce un amico di Politica Insieme, con cui mi è capitato di discuterne- “diritti di socialità”, per segnalarne meglio il momento dinamico, non l’attestazione statica di un valore, ma piuttosto la sua capacità di dare corpo a quelle relazioni di reciprocità che rappresentano il tessuto connettivo che garantisce coesione e tenuta del contesto civile. Si tratta di cambiare gioco, di interrompere un processo di avvitamento su se stessi, fin quasi ad assumere una posa autistica, di superare quella condizione di solitudini, che, accostate, stipate l’una a ridosso dell’altra, nelle mille connessioni che inestricabilmente si intrecciano, pure permangono reciprocamente impermeabili.
Paghiamo, senza rendercene conto, il prezzo di una lunga stagione nel corso della quale, dal divorzio, all’aborto, ora alla rivendicazione dell’eutanasia abbiamo attraversato processi che sono stati, ad un tempo, effetto e causa di una concezione individualista della vita, espressione di una coazione a dividere, a separare che finisce per invadere la singolarità stessa del soggetto, fino ad estraniarlo da sé stesso. E’ come se questa cultura, divenuta pervasiva, avesse scavato, come un torrente carsico, dei tunnel di cui neppure avvertiamo la presenza, tanto sembrano sintonici al sentire comune, ma che pure silenziosamente minano e rendono fragile, malsicura ed incerta la consapevolezza che abbiamo di noi stessi.
Dopo almeno mezzo secolo ispirato ai cosiddetti “diritti civili”, dobbiamo promuovere, dunque, l’ avvento di una fase nuova che significhi transitare dalla dimensione autoreferenziale dell’individuo alla vocazione aperta e relazionale della persona, come “cifra” del nostro domani. Dalla “gente” al “popolo”.
Si può forse uscire dalla fisionomia slabbrata ed informe della cosiddetta “società liquida” attraverso un percorso con il quale si passi dalla “collettività”, quindi da una indistinta pluralità di soggetti alla “comunità”, cioè a una rete di relazioni personali che ricreano una corrispondenza, una reciprocità fondata sulla condivisione di obiettivi comuni, su attese e preoccupazioni condivise, così da disegnare un orizzonte in cui nulla si smarrisca della ricchezza singolare di ciascuno, ma, nel contempo, si attestino esperienze di solidarietà che arricchiscano la vita di un calore nuovo, le donino un senso di protezione che incoraggi ad affrontare con fiducia il domani.
E’ necessario riscoprire, ricreare la dimensione “popolare” propria del nostro tempo, lo spazio, il terreno ideale su cui possa attecchire e via via affermarsi un nuovo umanesimo; una condizione, materiale e spirituale ad un tempo, che consenta all’uomo di tornare a conoscere sé stesso. Si tratta di un cammino che va oltre la politica, eppure della politica ha bisogno. Ha bisogno di un’azione, di una presenza attiva delle istituzioni, di investimenti che attestino la volontà di sostenere e promuovere un indirizzo nuovo.
Dobbiamo concepire questa svolta come il terreno proprio su cui affermare ed esprimere, ad un tempo, l’ ispirazione cristiana della politica e la “trasformazione” del Paese di cui parla Zamagni. Diritto al lavoro, casa, educazione e cultura, salute, cura dell’anziano, vivibilità della città e del quartiere, salubrità dell’ambiente: temi da declinare ciascuno tecnicamente per la sua parte, ma, in termini politici, da assumere congiuntamente come un “pacchetto di mischia” espressamente orientato alla famiglia, ai più deboli ed agli esclusi.
Del resto, si fa presto a dire ”famiglia”, ma il discorso è complesso e va approfondito. Oggi la famiglia è una corda tesa tra le due età estreme della vita e deve affrontare – e ciò vale in eguale misura per credenti o non credenti – la sfida di una stabilità affettiva sempre più problematica. Dobbiamo avere l’ ardire di interpellare e convocare su questi riferimenti e la destra e la sinistra. Purché, come ci dice Zamagni, in termini “progettuali” – cioè come si fa e, alla fin fine, con chi si fa – e non come mera petizione di principio o pura e semplice narrazione programmatica.
Quindi, bisogna lavorarci. Sapendo che, in un caso del genere, la cornice è parte essenziale del quadro, anzi – intesa come progettualità politica complessiva, nel senso di cui sopra – è più importante delle singole pennellate di colore stese sulla tela. In questa ottica, ci deve stare una politica che stia espressamente “dalla parte del bambino”, dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’ età dello sviluppo. Senza essere disattenti nei confronti degli anziani che, in ogni caso, pur in condizioni di solitudine e di disagio, hanno pur sempre il patrimonio della loro storia personale, degli affetti, delle vicende felici o meno che hanno dato senso alla loro vita, ci sono troppi bambini che non hanno niente.
Verrebbe da dire che perfino la malattia spesso si supera, le disabilita’ possono giungere ad un buon livello di compensazione, ma la deprivazione educativa, la povertà culturale purtroppo restano e segnano la vita per l’intero suo decorso.
L’abbandono scolastico, la povertà educativa, spesso legata alla povertà economica, ma perfino più pervasiva, non sono fenomeni accettabili, soprattutto in una “società della conoscenza” in cui rappresentano una condizione di “morte civile”. Si tratta di fenomeni da ascrivere tra le questioni “eticamente sensibili”, cioè da ricomprendere nel quadro degli argomenti più delicati. Carichi, quindi, di un formidabile impatto antropologico; tali da orientare – non meno dei temi che riguardano l’inizio e la fine della vita – la stessa concezione di sé che andiamo costantemente rielaborando, soprattutto in una stagione, come l’attuale, di grandi mutamenti.
Si tratta di un fronte d’iniziativa – come, del resto, l’intera politica dei “diritti di socialità” – in cui assume una fondamentale importanza il ruolo degli enti locali. A maggior ragione con i provvedimenti relativi alla pandemia, con la stessa riapertura delle scuole ci siamo infilati in una tensione tra governo centrale e Regioni carica di diffidenza, se non di aperta ostilità. La moda “secessionista” ha compromesso quel sentimento di genuino riconoscimento della ricchezza umana e civile che le culture locali esprimono e che l’intuizione sturziana del valore delle autonomie incorpora, come suo momento sostanziale, nella ricca articolazione istituzionale dell’ordinamento democratico.
Del resto, il pieno riconoscimento e la concreta rispondenza ad una nuova politica dei “diritti sociali” passa necessariamente dagli enti locali.
Spetta a noi riscoprire e riproporre il valore della città, riandando ad esempio, a quanto ci dice, in modo ancora oggi così vivo, Giorgio La Pira: “Ogni città racchiude in sé una vocazione ed un mistero. Voi lo sapete: ognuna di esse è da Dio custodita con un angelo custode, come avviene per ciascuna persona umana. Ognuna di esse è nel tempo un’immagine lontana, ma vera della città eterna. Amatela, quindi, come si ama la casa comune destinata a noi ed ai nostri figli. Custoditene le piazze, i giardini, le strade, le scuole; curartene con amore, sempre infiorandoli ed illuminandoli, i tabernacoli della Madonna, che saranno in essa custoditi; fate che il volto di questa vostra città si sempre sereno e pulito”.
Domenico Galbiati

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