“Siamo autorizzati a pensare”, consapevoli che “essere persone ragionevoli è un contributo indispensabile per il bene comune”. Si avvicina la festa di Sant’ Ambrogio, Patrono di Milano, e tornano alla memoria le parole che, nella stessa occasione, tre anni or sono, ci rivolse Mons. Delpini, Arcivescovo della Diocesi ambrosiana. Parole che, com’è nello stile dell’Arcivescovo che oggi siede sulla Cattedra di Ambrogio, solo in apparenza si mostrano semplici e pacate.
In effetti, straordinariamente profonde e provocatorie e, per noi, impegnati nell’ impresa di dar vita, con INSIEME, ad una forza politica di ispirazione cristiana, tali da poter essere sostanzialmente assunte, in un certo senso, come emblema della nostra iniziativa.

Non è facile rendere in modo semplice ed immediato concetti complessi, senza compromettere l’articolazione di cui sono ricchi. In quel sentirci “autorizzati a pensare” – detto fors’anche con una sottile cadenza ironica – c’è la consapevolezza di quell’intreccio di condizionamenti, di contraddizioni, di ambivalenze e di questioni sovrapposte che oggi intralciano un corretto discernimento, tale per cui la nostra personale facoltà di giudizio rischia di ridursi ad un che di aleatorio. Come se – e, in effetti, in larga misura è così – fossimo imbrigliati dentro stilemi che si impongono e ci costringono a camminare giù per la china di una asfissiante omologazione del pensiero, dei costumi, delle stesse aspirazioni che coltiviamo. Questo sembra di poter cogliere nell’affermazione di Mons. Delpini: questa volta spetta a noi essere “liberi pensatori”.

E la cosa ci tocca esattamente in quanto credenti. Altro che bigotti o clericali o oscurantisti timorosi di essere messi fuori gioco dalla “modernità” e da ciò che ne consegue. In un mondo apparentemente disincantato, in effetti incartato in una vasta gamma di “pre-giudizi”, nel senso etimologicamente proprio del termine, che ottundono la nostra autonomia critica, si rovescia la frittata di una antica e noiosa querelle: sono coloro che credono e coltivano, grazie alla concezione religiosa della vita, la capacità di guardare oltre la mera fattualità degli eventi, a poter assumere il compito di campioni, si potrebbe dire, del “libero pensiero”. Ne deriva una responsabilità che investe anche il piano dell’azione politica.

Non a caso, fin dalle sue prime origini, il movimento che abbiamo promosso ed ha finalmente assunto la forma di partito, riconosce, a proprio fondamento, il valore dell’ “autonomia”. Che non significa chiamarsi fuori dal contesto storico concreto e dal complesso delle relazioni di cui si sostanzia, in modo del tutto particolare quando ci si pone sul piano dell’ azione politica. Non si tratta, in alcun modo, di assumere una qualche postura autoreferenziale, né di rattrappirsi in un presuntuoso arroccamento, come se le ragioni che motivano la nostra impresa debbano essere semplicemente testimoniate – a mo’ di disimpegno della nostra personale coscienza, come fanno molte anime belle che rifuggono dalla politica – senza preoccuparci della loro efficacia sul piano storico.

Dobbiamo pensare, anzitutto, ad una autonomia di elaborazione culturale e politica, cioè di approfondimento e verifica della coerenza che corre tra le enunciazioni di principio e la loro traduzione sul piano politico-programmatico. Oggi, in molti ambienti, il semplice fatto di parlare di identità viene considerato sconveniente.
Come se ciò configurasse di per sé un atteggiamento intriso di arroganza e presunzione, contrapposto a quella cosiddetta “tolleranza” a tutto campo che corrisponderebbe all’unico stile di pensiero, anzi, di vita ammessa nella società liquida, in ossequioso omaggio ad un relativismo che, di fatto, va imponendo la sua attitudine post-metafisica come nuova forma ideologica.

In effetti, se la cifra, l’originalità dei diversi indirizzi di pensiero che arricchiscono il pluralismo del nostro tempo, fossero stemperate fino ad essere irriconoscibili, verrebbe meno la possibilità stessa di una qualunque dialettica civile e politica. La stessa democrazia impallidirebbe, fino a ridursi ad un mero esercizio procedurale. Immaginiamo, dunque, la nostra autonomia come concorso attivo alla vivacità di un discorso pubblico, fondato sul riconoscimento e la reciproca legittimazione di tutti gli attori che vi concorrono.

Una autonomia che si legittima sul piano dello schieramento politico nella misura in cui si pone, in primo luogo, in ordine ai contenuti che la qualificano. In altri termini una autonomia non di comodo, ma ambiziosa, capace di mettere all’attenzione del nostro sistema politico-istituzionale, temi ed argomenti che rappresentino il “baricentro” di un sistema trasformato. Una autonomia, quindi, che sia capace di “orientare” un vasto campo di forze e rappresenti prima che un fattore di pur legittima, anzi doverosa rivendicazione, un momento di verità.

Domenico Galbiati

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