Se si volesse fare una ricerca sui social per verificare in che modo è stato letto, ascoltato e giudicato  il meeting di Rimini nella sua giornata campale, dedicata al tema “Il ruolo dei partiti nella democrazia di oggi”, si avrebbe la conferma della polarizzazione pericolosa che ormai caratterizza l’opinione pubblica nostrana: il messaggio proveniente dal popolo di CL sarebbe per alcuni irricevibile perché influenzato da un consolidato clericalismo di centro-destra mentre,  per fortuna loro, erano presenti i neo-leader del PD e del M5Stelle per scongiurare la noia delle tradizionali kermesse politiche di fine estate.

L’applausometro del Meeting smentisce assegna la palma di maggiore gradimento all’intervento dell’unica leader politica donna, la presidentessa dei Fratelli d’Italia. Eppure, per i bene informati, Rimini, per un paio di giorni si è affermata realmente come la capitale della politica. Vale la pena ricordare che l’appuntamento di Cl 2021, quarantaduesimo della sua storia, dedicato al tema “Il coraggio di dire io”, è stato aperto dal messaggio inviato da Papa Francesco al presidente del meeting Bernard Scholz, tutto proteso a sottolineare che l’ “io” si giustifica e si legittima solo nell’incontro con gli altri e nella costruzione del “noi”.

Il Presidente Mattarella, in forte sintonia con il Papa, ha riproposto il pensiero guida del suo settennato: l’ “io” esclude l’egoismo che conduce al conflitto con altri, il futuro può essere costruito soltanto insieme nello spirito di una comunità condivisa, il nostro orizzonte resta principalmente l’Europa. Ma è toccato a Giorgio Vittadini, classe 1956, noto statistico e ciellino della prima ora, risvegliare l’uditorio con una relazione introduttiva che conteneva più di una provocazione nel suo incipit: vogliamo parlare della democrazia, di un tema quasi scontato, ma oggi urgente perché la democrazia si sta rivelando fragile pur essendo per noi insostituibile.

Una ricerca IPSOS-CNEL ci dice che il  56%  degli italiani è deluso di questa democrazia. Ecco la ragione dell’invito dei partiti al meeting riminese: accendere i riflettori sulla crisi della democrazia. Ai numerosi detrattori dell’iniziativa ciellina va posta la domanda imbarazzante: in Italia chi si sta facendo carico della ricerca delle ragioni profonde di crisi che hanno colpito la nostra democrazia? Dunque, ha destato subito stupore la presenza contemporanea al palco del Meeting di tutti i leader dei partiti che sostengono il governo Draghi, compresa la signora Meloni, dell’opposizione, che si è affidata ad un collegamento in streaming.

Vittadini ha dettato la scaletta della discussione attualizzando l’evento colossale della fuga dall’Afghanistan: non si può esportare la democrazia con le armi -ha detto- e la globalizzazione degli ultimi decenni, con la prevalenza del liberismo economico sulla politica, ha innescato la reazione identitaria e populista, un nazionalismo vendicativo. Il resto lo avrebbe picconato il ’68 con i suoi epigoni estremisti e a seguire Mani Pulite con la coda dei tanti “Roma ladrona” e “i magna magna” scaraventati contro la credibilità di tutti i partiti in parlamento.

Non so quanto gli storici potranno essere d’accordo con questa anamnesi della crisi e della caduta della prima Repubblica, ma va almeno osservato che le intelligenti letture di Vittadini hanno un limite cronologico: si fermano agli anni ’90, non citano la grande parentesi della diaspora dei cattolici, gettano uno sguardo nostalgico sugli anni dell’egemonia democristiana (“oggi-ha detto il moderatore Brambilla-ci siamo accorti che in parte ci mancano). Lo sconcerto dell’autorevole parterre di Rimini è stato il notare che quasi tutti i partiti presenti sono stati, in gran parte, responsabili della crisi attuale della democrazia, assediata da populismi televisivi, da quelli della democrazia informatica diretta contro la casta, dal sovranismo antieuropeo.

Dunque, come si sono discolpati i leader dei partiti, oggi in quarantena all’ombra del governo Draghi? Letta ha ottenuto il primo applauso con un’onesta mea culpa: “La nostra democrazia è malata. Tre governi in una sola legislatura che ha avuto il più alto numero di cambi di casacca, oltre 200; non è normale”. Per il resto su che cosa i capi politici, ormai noti agli Italiani, si sono trovati d’accordo per una terapia del dopo pandemia finalizzata a curare la democrazia? La risposta è sconsolante: su quasi nulla.

Il prezioso incontro, faccia a faccia, ha rasentato la triste logica dei talk show televisivi con un fuoco d’incrocio diretto al novello leader del M5Stelle, Giuseppe Conte, alle prese con l’impresa eroica di normalizzare la storia politica dei grillini, difendendone la tradizione, ma mettendo in campo “idee senza polemiche violente; si può fare politica con il sorriso”. E la signora Meloni ha rincarato la dose: la crisi della nostra politica- ha detto- è dovuta alla carenza di identità e i partiti esistono se hanno una visione del futuro, se sono pesanti, se stanno nei territori e non si affidano solo ai sondaggi e alla magia dei social.

Poi, è arrivata la bandierina strategica dei Fratelli d’Italia: la preferenza per una Repubblica presidenziale con buona pace della Costituzione Italiana che resiste nonostante tante picconature che l’hanno ferita, ma non demolita. E’ toccato a Letta invocare il rispetto della Costituzione, la reintroduzione delle preferenze e una nuova legge elettorale maggioritaria a doppio turno con un premio di maggioranza che non superi il 55% dei seggi (un Provincellum che superi il Rosatellum?). Salvini ha gettato la croce sulla Magistratura, che, a suo dire, è la vera forza che determina la vita democratica, privata di una reale separazione dei poteri, pilastro della democrazia. Per il resto i partiti se la sono cavata lanciando la palla in angolo: Draghi resti fino al 2023 per realizzare il Recovery Plan con le conseguenti riforme e una gestione rigorosa del PNR. Ma non se ne parla di tirare il corner per cogliere il gol della riforma di sé stessi che manca dalla promulgazione della Costituzione, un capolavoro frutto dell’incontro coraggioso di tre culture, la liberale, la cattolico-democratica, la social-comunista. Il Meeting di Rimini, forse, non ha avuto il coraggio di oltrepassare la soglia storica del 1994 per scoprire, senza falsi imbarazzi, che la diaspora ha reso irrilevante la cultura cattolico-democratica, ha proposto la “fusione a freddo” del nuovo PD, ha fatto avanzare i populismi che fanno male al popolo (B.Sorge), ha promosso altre culture che sembravano sepolte dall’ispirazione antifascista della Carta Costituzionale.

Si ripropone oggi l’ammonimento di Stefano Zamagni che richiama i cattolici a fare cultura e militanza politica per non rischiare di essere irrilevanti, in questo modo indebolendo la democrazia, schiacciata da un falso bipolarismo. Giorgio Campanini, alla straordinaria età di 91 anni, ha avuto il coraggio di scrivere questi giorni, sulle pagine di Avvenire, l’articolo “Cattolici e politica. Essere dappertutto e da nessuna parte” ( CLICCA QUI ), una conferma amara su quanto aveva detto nel 2011: “Il cattolicesimo italiano sta diventando intimistico e soffre ormai della stessa malattia che affligge la nostra società: ciascuno si fa gli affari suoi”.

E’ urgente, dopo la pausa dolorosa della pandemia, dedicare passione e amore alla democrazia, per rispondere alla domanda che si pose Norberto Bobbio: dopo la coraggiosa impresa dei padri costituenti siamo davvero riusciti a costruire una nuova e solida democrazia? Gianfranco Pasquino attualizza questo pensiero con un rinnovato angoscioso interrogativo: quella liberazione ottenuta nel sangue e nella lotta ha generato forse una libertà inutile?

I cattolici, che si mettono in cammino verso il Sinodo della Chiesa italiana, non possono eludere questa domanda come se non li riguardasse, cadendo in questo modo nel tristissimo racconto pirandelliano di “Uno, nessuno e centomila”.

Antonio Secchi

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