Robert Reich scrive, in Il sistema (recensito da Pietro Garibaldi su “La Stampa” del 10/1/2021), che la democrazia americana e il suo sistema economico non funzionano più e devono essere profondamente cambiati. L’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump è stato un segnale in tal senso.

Certamente si è trattato di un fatto gravissimo, inammissibile. Gli assalitori erano in massima parte estremisti di destra, molti erano razzisti o suprematisti bianchi. Trump li ha mobilitati, eccitati, spinti ad agire. Tuttavia, Fabrizio Barca (economista riconducibile al mondo della sinistra) ha invitato a non soffermarsi solo sul violento episodio, ma piuttosto a domandarsi perché i suoi protagonisti fossero così sicuri di sé, così spavaldi. La risposta è che si sentivano coperti, sostenuti da una fetta importante del popolo americano, di quella parte sempre più numerosa di popolo che si sente abbandonata. Si chiede Barca quale malessere spinga su questa strada tanti americani. A muoverli, sono le molte disuguaglianze: disuguaglianze nell’accesso ai servizi fondamentali, alla scuola, alla mobilità, disuguaglianze territoriali, di aree non per forza povere, ma di prolungato declino economico-sociale, aree che stanno andando dove non c’è futuro: zone rurali, periferiche, deindustrializzate.

Scrive Reich che, alla base della crisi americana, c’è la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi: amministratori delegati di grandi imprese, banche, società tecnologiche, industrie, case farmaceutiche e catene della grande distribuzione. L’insieme di costoro (lo 0,1% della popolazione che possiede il 20% delle ricchezze della nazione) costituisce la nuova oligarchia, il vero nucleo di potere del sistema America. Gli oligarchi stanno al vertice di quella “nuova classe” (già descritta da Christopher Lasch) che comprende, oltre ai manager delle grandi imprese e ai signori della finanza, quanti controllano gli strumenti della produzione culturale e definiscono le opinioni, le mode e i modelli del vivere, ai quali si aggiungono coloro che dirigono le fondazioni filantropiche e le istituzioni di studi superiori, unitamente ai titolari dei più avviati studi professionali e le celebrità del mondo dell’intrattenimento e dello sport: un insieme di persone con alti redditi e patrimoni.

A determinare l’affermazione degli oligarchi, sono stati vari fattori: l’indebolimento della legislazione antitrust per favorire le imprese di grande dimensioni; la deregolamentazione di Wall Street che ha fatto entrare le banche d’affari nel mondo delle banche commerciali indirizzando il risparmio verso la finanza speculativa; lo sviluppo delle tecnologie digitali che ha penalizzato il ruolo dei lavoratori specie di basso livello professionale; la globalizzazione con la crescita delle importazioni di beni di consumo a danno dei produttori nazionali e dell’occupazione; il crollo del potere rivendicativo dei sindacati dei lavoratori.

Di fronte a tali trasformazioni, le classi popolari e il ceto medio hanno tentato di difendersi: casalinghe e madri sono entrate nel mercato del lavoro per sostenere il bilancio familiare; tutti hanno lavorato più ore settimanali; c’è stato un diffuso ricorso al debito individuale e familiare. Tuttavia la quota di reddito destinata ai lavoratori è costantemente diminuita, mentre i costi dell’istruzione universitaria sono diventati insostenibili per la maggioranza dei loro figli. Così, mentre la classe media è in via di scomparsa, il 90% della popolazione è in crescenti difficoltà. Di qui, nasce la rivolta contro l’establishment dei Clinton e dei Bush. A motivare il sostegno a Trump, non ci sono stati razzismo e xenofobia, ma furia e rabbia contro questa classe dirigente.

Ma, dice Barca, una tale rabbia non può essere spiegata soltanto con motivazioni economiche. Milioni di americani avvertono un sistematico non-riconoscimento non solo della propria condizione economica, ma anche, e forse soprattutto, della propria identità. Qui di nuovo ci soccorre Lasch quando, già negli anni Novanta, scriveva che la classe operaia e le classi medie lavoratrici si sentono e, di fatto, sono messe in un angolo perché non rinunciano all’idea di famiglia biparentale, si oppongono agli stili di vita “alternativi”, nutrono riserve profonde nei confronti delle politiche di azione affermativa (a favore di donne, minoranze ecc.) e di altri tentativi più o meno azzardati di ingegneria sociale.

Secondo Reich, lo scontro, in America, non è più tra democratici e repubblicani, ma fra popolo ed oligarchi. Questi ultimi finanziano sia i democratici sia i repubblicani per garantirsi una legislazione non ostile, mentre amano presentarsi come benefattori delle comunità locali e dell’ambiente con donazioni e programmi speciali. Ma è solo un modo per garantirsi la benevolenza dei due partiti che si alternano al potere, e per mascherare l’obiettivo di aumentare la propria ricchezza e il valore di mercato delle società che gestiscono.

Trump, a detta di Reich, è stato il meglio che l’oligarchia potesse augurarsi. Il suo stile di governo e la tendenza ad alimentare divisioni e tribalismi hanno evitato che il Paese, sempre più impegnato in una guerra tra bande violente, si accorgesse dell’ulteriore crescita delle disuguaglianze.

C’è un altro motivo per cui gli oligarchi possono essere soddisfatti per come siano andate le cose. La squalifica che ha investito Trump e i trumpisti coinvolgerà a lungo tutti quanti si oppongono all’establishment. Ben diversamente sarebbe accaduto se, ad interpretare il malessere delle classi popolari, fosse stato qualcuno tipo Bernie Sanders, che non a caso è stato bloccato due volte (con metodi non sempre corretti) nella sua corsa alla candidatura presidenziale del Partito democratico. Per questo, Reich ritiene che sia necessaria la nascita di un terzo partito, nel panorama politico statunitense, che interpreti le esigenze del popolo, e contrasti gli oligarchi e quanto sta loro intorno.

Ora, vediamo se le vicende del nostro Paese e dell’Europa presentano qualche elemento in comune con quanto accade in America.

Dario Fabbri è prudente quando sottolinea che non si possono trovare molte analogie tra un impero (perché tale è l’America) e le nazioni europee, molte delle quali sono, nella sostanza, satelliti della grande potenza. Le istituzioni imperiali (comprese quelle che caratterizzano una democrazia) funzionano diversamente da quanto si pensa nel Vecchio continente, poiché gli obblighi che sono inerenti al ruolo imperiale le plasmano lasciando un ridotto spazio all’iniziativa degli eletti alle cariche di vertice, in particolare riguardo a sicurezza, forze armate e politica estera. L’America, inoltre – e non da oggi – è profondamente divisa su base etnica, sul piano sociale, e per le caratteristiche del territorio: la California è ormai un mondo a parte con 40 milioni di abitanti; il Nord-Est atlantico è liberal; il Middle West incarna l’America profonda; il Sud non ha ancora rimarginato le ferite della Guerra di secessione. Sono lacerazioni non facilmente ricomponibili. Il timore è che, per ricompattare il Paese, si imbocchi la strada di una guerra contro un nemico esterno che, ove coinvolgesse potenze come Cina, Russia o Iran, costituirebbe un pericolo enorme per l’intero pianeta.

Invece, per Ernesto Galli della Loggia, per Giovanni Orsina e per Fabrizio Barca, pur tenendo conto delle dovute differenze tra Europa e America, la risposta è affermativa perché anche da noi c’è questa diffusa rabbia tra la gente comune.

Secondo Galli della Loggia, il diffondersi in tutto l’Occidente (incluso il nostro Paese) di un clima di diffidenza e avversità verso le istituzioni e chi le rappresenta non è prodotto dal solo disagio economico, ma da una motivazione più profonda: si tratta della rabbia di chi non riesce più a riconoscersi nella società in cui è nato e della quale si sono persi i valori di riferimento, di chi non si sente più parte di essa bensì tollerato come un corpo culturalmente estraneo, vittima di una emarginazione che lo relega alla condizione di straniero nel proprio Paese, se non di paria. Un disprezzo e una discriminazione (aggiungo io) che si sono fatti più evidenti e marcati con il dilagare del politicamente corretto.

Per Orsina, i partiti tradizionali (di destra e di sinistra) non hanno saputo dare una risposta a quanto ha scatenato tale rabbia, o peggio, non se ne erano neppure accorti quando stava montando, o la ritenevano frutto di una montatura di chi, a destra, voleva creare paure. Ma i movimenti populisti e sovranisti catalizzano e alimentano le emozioni dei propri elettori, non le creano. Hanno individuato una domanda politica effettiva e hanno costruito su di essa la propria offerta. L’antidoto al sovranismo e al populismo non è lo sviluppo di una destra liberale “normale” o “moderata” (come molti sostengono) perché esso nasce proprio dalle insufficienze di quest’ultima.

Tuttavia, la sconfitta di Trump e la sua pessima fuoriuscita di scena pongono interrogativi a quei sovranisti che imprudentemente hanno tifato per lui. Infatti, questi devono ripensare le proprie strategie e valutare se e come rendere la propria proposta politica compatibile con i vincoli economici, istituzionali e internazionali del Paese. Qualora vogliano intraprendere questa strada (sembra il caso della Lega, ma vale anche per i 5 stelle), devono capire se siano in grado di portare nelle istituzioni i voti ad essi indirizzati, e come farlo. Impresa ardua, dice Orsina, perché un elettorato furioso è poco controllabile, e perché è difficile dare ad esso risposte senza mettere in discussione proprio i vincoli sopracitati. Pertanto, a fronte di tali difficoltà, i loro leader potrebbero essere indotti ad adagiarsi e trovare conveniente restare nel ghetto (la scelta di Meloni), cogliendo le rendite di posizione derivanti dal rappresentare una fetta consistente di elettorato.

La domanda sul che fare va posta anche a sinistra perché (dice Orsina) ne va della buona salute della democrazia, e perché quell’elettorato in rivolta proviene da fasce socialmente e geograficamente marginali, gli sconfitti, che la sinistra ha sempre preteso di rappresentare e difendere. Ma finora i progressisti hanno rifiutato di riconoscere la legittimità delle frustrazioni e delle rivendicazioni della base sovranista; giudicandole effimere e superficiali. Così politica e cultura progressiste si sono arroccate a difesa delle proprie casematte istituzionali, mediatiche ed accademiche.

Anche per Barca, la sinistra deve interrogarsi circa questa rabbia indicatrice di un profondo disagio, invece di lavarsene le mani dicendo che lei non c’entra nulla con queste cose, e che quelli (gli arrabbiati) sono bestie. Non capisce di essere seduta su una polveriera, e si chiama fuori dal ruolo che connota una classe dirigente.

A proposito di classe dirigente, penso che la sinistra disponga in maggior misura, rispetto alla destra attuale, di quelle risorse di cultura e competenze che connotano una élite politica, perché i chierici (ovvero gli intellettuali) che ne sono depositari sono pressoché tutti progressisti. Tuttavia, da troppo tempo, questi signori se ne stanno accucciati comodamente all’ombra dell’establishment, asserragliati in quelle casematte citate da Orsina, per essere disponibili a metterlo in discussione rischiando di perderne il sostegno e le connesse prebende.

Reich pensa che in America ci voglia un nuovo partito perché i due esistenti sono troppo compromessi con l’oligarchia. Da noi, di partiti ce ne sono già troppi, ma certamente dovranno esserci cambiamenti profondi nel paesaggio politico-partitico perché altrimenti nessuno potrà impedire a quella polveriera di esplodere.

Ora, spero che Draghi sia in grado di evitare l’assalto ai forni o analoghi fenomeni dando un sufficiente sostegno a chi è in grandi difficoltà economiche in questo momento difficilissimo, e di impostare le riforme necessarie per mettere in moto il Paese. Tuttavia non vedo ancora chi potrà offrire, o almeno dire, qualche cosa a quei tanti cittadini (menzionati da Galli della Loggia) che non si riconoscono più nel Paese in cui sono nati e se ne sentono messi ai margini. Un compito indispensabile per sanare la profonda frattura culturale e sociale che, non solo in Italia, spacca la società in due parti, in guerra l’una contro l’altra.

Giuseppe Ladetto

 

Pubblicato su Rinascita popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )

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