Vale la pena tornare sulla promozione della “maternità surrogata” che è andata in scena a Parigi e si vorrebbe portare anche da noi, a Milano in modo particolare, contro la quale INSIEME ha gia’ preso nettamente posizione ( CLICCA QUI ).
Se volessimo ricorrere ad un solo termine con cui dire, in estrema sintesi, la sostanza ultima della “maternità surrogata”, dovremmo parlare di “violenza”. Nei confronti del feto e poi del neonato, della madre e della gestante. Madre e gestante avvitate in un inestricabile equivoco che disarticola, per fasi separate e distinte, quanto di più unitario ed univoco si possa immaginare, cioè il compito di generare e trasmettere la vita.
Se non è violenza, subdola e pervasiva, questa divaricazione della funzione materna, cosa intendiamo come tale? Per di più si vorrebbe rivestirla dei panni di un nobile gesto di umana solidarietà, a dimostrazione del fatto che ci stiamo inoltrando in una “babele” di linguaggi , con i quali, pur senza averne piena avvertenza, inganniamo noi stessi e dribbliamo la nostra coscienza.
Il cosiddetto “utero in affitto” rappresenta, al contrario, una ferita alla facoltà della madre di accogliere ed ospitare, custodire e generare la vita, tale da banalizzare quest’ultima ed offendere la donna nella sua dignità più alta. Eppure non è necessario essere credenti per riconoscere come la vita sia “sacra”. Cioè intangibile, in nessun modo manipolabile, anche in una prospettiva rigorosamente laica, in quanto perennemente nuova ed imprevedibile, aperta ad un domani che già la abita eppure resta insondabile, misterioso, sorprendente; senza posa orientata ad un “oltre” che, in ogni istante, la trascende, mossa da quella inesausta ricerca di senso di cui in nessun modo possiamo fare a meno.
Appartiene alla categoria del “dono”, non del “possesso” ed ogni qual volta – lo attestano anche importanti pensatori tutt’altro che credenti – pretendiamo di “cosificarla”, di piegarla alle nostre pre-ordinate ragioni, la soffochiamo, fino a tradire le stesse fondamenta della nostra libertà. Non dobbiamo cadere nell’equivoco di ritenere che la scienza esaurisca in sé la nostra facoltà di conoscere e di darci conto della realtà, come se fosse esaustiva della nostra stessa umanità. Se così fosse non ci sarebbe ragione che debbano sopravvivere i poeti e la poesia.
Si potrebbe, anzi, dire che c’è vera scienza solo laddove una risposta genera almeno due nuove domande, conservando, dunque, la percezione di un limite da osservare ed il sentimento di una prudenza che non può venir meno a fronte della consapevolezza che quanto più sono delicati ed intimi i processi della vita, tanto più lucidamente dobbiamo sapere quanto sia tuttora sterminato il campo di ciò che ignoriamo. Altrimenti finiremmo per credere – ed, anzi, per più aspetti, già ci siamo – che tutto ciò che la scienza e le tecnologie che la accompagnano dimostrano essere possibile sia, solo in virtu’ della sua fattibilità, anche eticamente legittimo.
Andremmo incontro, in tal modo, ad una devastante alienazione, nella misura in cui saremmo indotti a credere che la moralità dei nostri comportamenti non tragga origine dalla interiorità della nostra coscienza, ma sia piuttosto rimessa alla mera tecnicalità delle cose. La “maternità surrogata” disgiunge e separa radicalmente due fasi che sono, al contrario, vitalmente connesse sia dal punto di vista strettamente biologico che per quanto concerne le implicazioni di ordine psicologico, emozionale ed affettivo che accompagnano, senza soluzione di continuità, la gravidanza, il momento del parto e le fasi di primo accudimento che sono decisive per lo sviluppo psicofisico del neonato.
La ricerca ha chiarito, ad esempio, come il fenomeno del “microchimerismo” attesti quanto sia profondo e duraturo, addirittura prolungato per anni, il rapporto tra feto e gestante. Ed è, in quest’ultima – e non nella madre che dovrebbe fruirne per attendere adeguatamente all’accudimento del neonato – che le “microchimere”, cioè le cellule del feto che persistono nel corpo della gestante, attivano processi fisiologici funzionali all’allattamento, alla definizione del quadro ormonale e perfino ai processi cerebrali connessi all’attaccamento madre-bambino.
E’ del tutto evidente, dunque, e scientificamente comprovato come l’ “utero in affitto” sia oggettivamente, perfino sul piano strettamente e meramente biologico, di fatto del tutto insostenibile e tale da rendere, almeno potenzialmente, problematica quella originaria e primordiale relazione con la figura materna che consente al neonato di avviare il processo di percezione della propria individualità.
Domenico Galbiati