La disputa feroce sul Manifesto di Ventotene è la prova lampante delle contraddizioni strutturali ed insanabili che azzoppano il nostro sistema politico bipolare e maggioritario.

Si è trattato di un confronto surreale e smozzicato, cifrato quel tanto da renderlo incomprensibile ai più, un dibattito tra sordi, del tutto e solo funzionale alla reciproca sfida tra i due schieramenti. Come se le ragioni dell’uno esistessero non in virtù della loro coerenza intrinseca, bensì solo in quanto ciecamente contrapposte all’altro. Scontro condotto – e non c’è da sorprendersi – secondo la regola, purtroppo di fatto volentieri assodata da ambedue i contendenti, della reciproca delegittimazione delle parti.

Giorgia Meloni, di fatto, continua a giocare con un avversario a porta vuota. Il quale dovrebbe piuttosto chiederle, con la necessaria schiettezza, se ritiene che la particolarità del nostro legittimo e doveroso “interesse nazionale” – che nessuno intende mettere in discussione – sia perseguibile solo, come in effetti è, dentro il processo di unificazione europea, cioè nel quadro del più vasto “interesse generale” del vecchio continente oppure se, al contrario, non lo stia piegando a tutt’ altro fine, cioè accompagnandolo, per mano, sia pure a passi felpati, in tutt’ altro contesto, cioè – e non è solo questione di Trump o non Trump – nel fronte internazionale dei cosiddetti “conservatori”, cioè dei Paesi che già si orientano verso regimi post-democratici, salvo precisarne, cammin facendo, le possibili forme più o meno autoritarie. Insomma, qual è la Meloni di cui dobbiamo far conto? Quella istituzionale che siede a Palazzo Chigi oppure colei che aspira alla leadership dei conservatori a livello globale?

Lo stesso confronto in atto in questi giorni in Europa , di fatto, avviene dentro questa cornice più vasta che concerne la sopravvivenza o meno degli ordinamenti democratici e dei dispositivi del diritto internazionale che li supportano.
A tale proposito il processo di presunta pace in Ucraina, gli sviluppi che ne verranno, è patognomonico, cioè basta da solo a dar conto della diagnosi e della prognosi dei processi in corso, orientati ad un differente quadro delle relazioni internazionali. Per questo è straordinariamente importante e riguarda l’Europa, soprattutto come bastione – l’ultimo? – della democrazia e dei suoi inalienabili valori di libertà, giustizia, eguaglianza e solidarietà. Abbiamo bisogno, insomma, non di una, ma di due alternative: una “nel sistema”, l’altra “di sistema”. La prima in vista delle prossime elezioni politiche. La seconda per liberare l’ Italia dalla camicia di forza di un meccanismo elettorale che spinge forzosamente gli italiani fuori dal sistema democratico.

La “pochade” di ieri l’altro a Palazzo Madama può, dunque, davvero sorprendere? Oppure, stava prima o poi, nell’ordine delle cose e, quindi, dovevamo pur attenderci una manovra diversiva del genere, il giorno in cui, come avviene oggi, Giorgia Meloni fosse giunta al bivio delle sue contraddizioni?

Non appena si è alzato, tra guerra e pace, tra Europa ed America, tra Trump e Putin, tra Gaza ed Israele il livello dello scontro, a casa nostra è venuto alla luce – a maggior ragione – quanto sia drammaticamente sdrucito il nostro sistema politico maggioritario e bipolare. Il quale è del tutto incapace, per un dato sistemico e strutturale, ancor prima che sul piano dei contenuti controversi , di interpretare la complessità del momento. In un certo senso, perfino a prescindere da personaggi ed interpreti che ci mettono del loro, ma sono, ad un tempo, custodi e prigionieri di un’ architettura che non ammette se non lo scontro pregiudiziale cui assistiamo quotidianamente.

Domenico Galbiati

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