E’ con grande piacere che pubblichiamo un ricco ed approfondito contributo del carissimo amico Filippo Cinoglossi. Ci siamo posti il problema della lunghezza delle tante riflessioni offerte da Filippo. Tutte davvero meritevoli di attenzione. Sarebbe stato un vero peccato doverle sintetizzare perché estremamente profonde, attuali e valide. Preferiamo così offrire questo contributo in lettura in tre parti,  a partire da oggi.

Il lavoro ventennale di mons. Simoni muove da una lettura delle condizioni politico-religiose del mondo cattolico tanto solide quanto straordinariamente originali.

Il suo Collegamento sociale cristiano (CSC) nasce infatti per opporsi “alla trascuratezza della memoria e soprattutto all’esito individualistico sia dell’autonomia laicale che di un elogio troppo unilaterale della testimonianza silenziosa e ‘povera’, a quell’esito insomma che consiste in una diaspora praticamente illimitata e in una svalutazione aprioristica di ogni richiamo alle ragioni del camminare insieme” (Liberi ma non dispersi, p. 5).

Mi colpisce, nella ricostruzione di mons, Simoni, la grande distanza critica nei confronti della communis opinio promanante dalle conventicole intellettuali della cattolicità italiana post-Tangentopoli che vede nella diaspora della presenza dei cattolici un vero e proprio mito fondativo.

Vasti settori del mondo cattolico italiano, complice un dossettismo maldigerito, finiscono per adottare uno schema di pensiero dagli esiti disastrosi sviluppatosi già nell’ecclesiosfera francese post-conciliare (l’idea di una consecratio mundi che trova la sua applicazione pratica nella trasformazione militante del mondo, che poi divenne per molti una consecratio esclusivamente umana a contenuto rivoluzionario).

La lettura di mons. Simoni è invece molto realistica: il CSC sorge per impulso ecclesiale poiché negli anni di transizione verso la Seconda Repubblica, vasti settori del mondo cattolico – soprattutto i quadri dirigenti dell’Azione cattolica – smarriscono completamente una propria capacità di elaborazione progettuale preservata fino a tutti gli anni Ottanta all’interno di una cultura politica ancora di tipo popolare e solidale.

Lo sgretolamento della convinzione di un mandato etico-politico a governare, la perdita effettiva della posizione dominante di governo, favorisce la deriva di pezzi del cattolicesimo cd. “democratico” verso appartenenze sentite come emancipatorie dalle antiche obbedienze, ma fondamentalmente sterili sul piano pratico-progettuali.

Da ciò l’approdo fiducioso agli schieramenti maggioritari, saldamente egemonizzati dell’intellettualità radical-individualistica di sinistra (pensiamo agli “innamoramenti” per personalità come Emma Bonino, la cui nocività ideologica sarebbe parsa scontata anche ad un segretario di una modesta sezione D.C. ancora fino agli anni Ottanta), per giungere poi agli esiti di plebeismo cattolico di questi ultimi anni, un mix cattolico fatto di riformismo ecclesiale deluso, di collateralismo ideale alle sinistre (e oggi al M5S) e di utopismo emozionale antagonistico à la Roberto Saviano o à la Gino Strada (fino al nicodemismo di alcuni parlamentari M5S cattolici).

Ciò spiega, assai meglio delle letture di Alberto Melloni et similia sul “Ruinismo”, l’inevitabile quanto provvidenziale funzione di supplenza svolta dall’episcopato italiano negli ultimi vent’anni, a fronte di quadri dirigenti laici sostanzialmente afasici, o impegnati nella vana costruzione della corrente teo-dem del Partito democratico.

Rispetto a tutte le precedenti esperienze che hanno avuto i cattolici nella politica italiana, ci troviamo di fronte ad una fase completamente nuova, anche rispetto alla crisi dei primi anni Novanta.

E’ in atto ed è presente un processo di secolarizzazione, di scristianizzazione, che rende la nostra società molto diversa da quelle in cui gli altri tentativi ed esperienze dei cattolici in politica hanno trovato attuazione. Questo significa, come dicono alcune indagini, che addirittura si rischia il passaggio della fede alla prossima generazione. Questo allora ci pone il problema di un’identità.

Siamo consapevoli del fatto che lo stato di salute del cattolicesimo italiano non è molto migliore di quello della comunità nazionale e tuttavia il cattolicesimo italiano non ha ancora del tutto perso l’abitudine a tentare di connettere valori e interessi, e a farlo non solo ciascun per sé, o in pochi, ma anche dialogando in raggi più ampi.

Ha ancora eventi e istituzioni nelle quali di una decisione politica non ci si chiede solo: «conviene?», ma anche: «che cosa significa?». Molto spesso lo fa in modi vecchi e in termini non facilmente utilizzabili. Altre volte lo fa forse per stanca abitudine, ma ancora lo fa, e di questi tempi è già qualcosa, riflettendo su alcune grandi questioni nazionali e globali.

Per questa ragione, il cattolicesimo italiano resta una risorsa vitale per la comunità nazionale.

Di fronte a queste sfide, il Vangelo ci domanda in modo netto: “da cosa riconosceranno che siete miei discepoli? Dall’amore che avrete gli uni per gli altri, amatevi come io vi ho amato, in una dimensione della Croce”.

C’è una visibilità del cristianesimo e dei cattolici che si riconoscono in quanto corpo da cui promana un nuovo tipo di relazione sociale, un nuovo tipo di amore.

La fede non si vive singolarmente, si rischia il sentimentalismo, ma si vive in confronto con l’altro.

Quindi il primo tema è sicuramente quello della ricomposizione, di un’unità, almeno tendenziale, tra cattolici impegnati nella vita civile e politica: è il motivo del riconnettere, del ricucire, che è stato opportunamente scelto dal card. Bassetti come linea-guida della sua presidenza della CEI.

Dobbiamo tornare a scoprire il valore della coesione e dell’unità tra cattolici impegnati nell’azione politica: ripartiamo proprio da Moro per riscoprire le ragioni del nostro stare insieme che per un quarto di secolo abbiamo malamente messo da parte.

Per uscire dalla subalternità culturale dobbiamo ritrovare un linguaggio comune, una koiné condivisa basata sulla Dottrina sociale, che più ancora che degli strumenti di comunicazione, è quella che poi crea l’opinione.

Dopo decenni di benessere, le numerose crisi finanziarie, economiche, ambientali, appaiono al nostro popolo inarrestabili, talvolta minacciose: i risultati delle elezioni del 4 marzo 2018 ne sono l’emblema politicamente più eloquente, hanno trionfato gli imprenditori politici della paura (Lega e M5S).

Benedetto XVI ha definito questa sindrome “congedo dalla storia”, papa Francesco parla di “paura, lentezza e nostalgia” che possono fiaccare le risorse morali dei credenti: da qui l’emergenza demografica che è il precipitato di una più vasta crisi di senso e di valori.

Nel mix tra paura e vita quotidiana costruito decisivamente dalla comunicazione, avviene la perdita di un elemento fondamentale della vita sociale, il credere nell’altro; come corollario di questa perdita, il capitale sociale, che in fin dei conti non è altro che fiducia interpersonale, benessere che traiamo nelle relazioni con gli altri, subisce un irrefrenabile processo di svalutazione.

Il secondo tema è quello della speranza e della visione in una Nazione drammaticamente in debito di risorse morali e civili.

Il compito dei popolari è dare una visione e uno slancio che impegni tutti gli italiani in una nuova opera collettiva su ciò che può rappresentare il nostro popolo.

Se c’è una speranza che il Paese, questa speranza la può dare solo il mondo cattolico.

Il terzo tema è quello della domanda politica: a chi si rivolge la proposta di un nuovo popolarismo?

Se noi facciamo un’offerta, dobbiamo infatti conoscere la domanda: per fare questo dobbiamo recuperare la lezione popolare di un’autentica laicità, evitando un pericoloso errore interpretativo che è quello d’identificare in Italia i cattolici con gli eredi della Democrazia Cristiana, ovvero con i membri di organizzazioni diversissime tra loro come l’Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, l’Opus Dei, i volontariati e il sindacalismo cristiano.

Anche per questo la CEI si è rivolta e si rivolge al “popolo cristiano” piuttosto che ai “militanti”, nonostante tutte le fragilità e gli accomodamenti quotidiani del cristiano comune: questa scelta pastorale è assolutamente netta nell’insegnamento degli ultimi tre pontefici: padre Spadaro, su Civiltà cattolica, ha sottolineato l’importanza di “tornare ad essere popolari”, riconnettersi con la società civile, con i “ceti popolari”, ricostruire la relazione naturale con il popolo.

Come eredi del popolarismo dobbiamo ribadire con forza che ci rivolgiamo a tutti gli italiani, indipendentemente dalla loro appartenenza di fede, perché siamo convinti della forza del nostro progetto.

Questo non significa non avere un proprio retroterra culturale e sociale, che è dato dalla Dottrina sociale della Chiesa e da quella pluralità di “mondi vitali” che formano la costellazione del cattolicesimo sociale.

Anzi, in un certo senso, questi mondi vitali pesano oggi più che nella società novecentesca perché costituiscono un gigantesco potenziale di reti, di “minoranze creative” in grado di dare senso, ruolo ed appartenenza ad un popolo che si è progressivamente atomizzato, rinchiuso nel particolarismo dalla crisi e dall’individualismo.

“Retroterra” quindi non come neo-collateralismo ma come, profondità di radicamento, risorsa di dinamismo e di energia in una società moralmente rattrappita (cfr. Rapporto 2019 Censis, Dappertutto e rasoterra).

Si tratta sicuramente della sfida più difficile perché i fattori di disarticolazione e disgregazione della società nazionale sono potenti e fondamentalmente incarnati da quasi tutte le forze politiche.

Il quarto tema: partire da una valutazione storica per verificare la praticabilità di una nuova esperienza politica

Si è detto per molti anni, ed è ancora questa la concezione più diffusa nel nostro mondo, che compito dei cattolici è quello di dare testimonianza dei propri ideali in qualsiasi gruppo politico si trovino.

Sennonché, la testimonianza morale, fondamentale anche per l’azione politica, non equivale all’azione politica.

L’azione politica, se vuole essere efficace, esige l’organizzazione, cioè di un partito, altrimenti politicamente si conta zero.

Il nostro rinnovato impegno civile deve partire proprio da un bilancio dei risultati, dei traguardi raggiunti dal nostro Paese in questi venticinque anni segnati dall’assenza di una forte ed organizzata presenza di popolarismo cattolico (e dai fallimenti dei vari tentativi di ricostruirla dignitosamente, cfr. Todi 1 e 2, etc.).

Credo che le risultanze catastrofiche di questo bilancio siano sotto gli occhi di tutti: questa diaspora ha reso totalmente inefficace la presenza dei cattolici nella vita politica italiana.

Basti porre attenzione a come in questi anni è stata trattata la famiglia, per non parlare della scuola o le grandi questioni della bioetica, malgrado tanti parlamentari dichiaratamente cattolici, malgrado Letta, Renzi, Gentiloni fossero expressis verbis “cattolici”.

Non è forse necessario, urgente e doveroso da parte dei popolari liberali e solidali dare il proprio contributo alla vita politica con un partito di chiara impronta sturziana, nella tradizione di quel cattolicesimo liberale che nasce con Manzoni e Rosmini, da Sturzo, a De Gasperi, fino a Moro e Ruffilli?

Proprio cercando di rispondere all’appello di mons. Simoni, che è in primo luogo – cerco di non dimenticarlo – un appel d’âmes, mi sono domandato fino a quando i cattolici italiani, dovranno seguitare ad affaccendarsi nel prepolitico, preparando ascari per altri eserciti, ma a modo loro, e in vista di loro specifiche e spesso non condivisibili finalità nella sfera politica?

E’ paradossale come di questa rilevante e finora inespressa politicità siano più avvertiti osservatori laici come Ernesto Galli della Loggia e Ferruccio de Bortoli che tanti interpreti “interni” al mondo cattolico, che continuano a sparare ad alzo zero, da destra e da sinistra, contro questo progetto (penso a C3Dem e ad Alleanza cattolica, ad esempio).

Contro l’idea di progettare una nuova formazione sinceramente legata alla lezione del popolarismo, si ripete l’obiezione che, per la realizzazione di tale progetto, non ci sono le condizioni.

Come se le condizioni fossero entità metafisiche legate ai capi dell’eternità e non fossero fatti storici, economici e politici da combattere o da creare.

La realtà è che ripetere fino al fastidio che non ci sono le condizioni per la creazione di un partito sturziano credo che equivalga a una specie di rassegnazione, a una chiara resa ai fatti.

Come ha opportunamente rilevato Luca Diotallevi, “come cattolici italiani non saremo facilmente assolti dal non aver saputo declinare e istituzionalizzare in termini di responsabilità quel po’ di capacità che ci è rimasta di collegare fatti e interessi. Lo stato in cui versa la comunità nazionale, e quella europea, rende gravemente colpevole ogni parola e ogni opera di avarizia politica, e anche ogni omissione”.

( Segue )

Filippo Cinoglossi

Immagine utilizzata: Shutterstock

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