Il presidente del Centro studi Rosario Livatino prof Mauro Ronco, partendo dal controverso uso dei termini ‘sovranismo’ e ‘populismo’ (su cui anche CLICCA QUI), approfondisce la questione ‘giustizia sociale’. Dalle norme della Costituzione in tema di diritti sociali alla concreta vanificazione di essi a seguito delle privatizzazioni selvagge e della globalizzazione, il testo prospetta le linee-guida per il loro ineludibile recupero.

1. Il “sovranismo” e il “populismo”. – Negli ultimi anni nei vari Paesi d’Europa e, in particolare, in Italia, si è aperta una sorta di caccia alle streghe, guidata dagli ambienti culturalmente più influenti nella vita sociale, dai giuristi accademici del mainstream e dai giornalisti specializzati in materia economica, contro l’insofferenza di larga parte della popolazione, soprattutto appartenente agli strati inferiori della società, verso le politiche europeiste e liberiste comuni ai vari Stati dell’Unione Europea.

Questa insofferenza, raccolta in modo disordinato e frammentario in qualche momento particolare da alcuni partiti politici, è stata stigmatizzata dai ceti dominanti con i termini, connotati dispregiativamente, del “populismo” e del “sovranismo”. L’associazione delle due nozioni, che potrebbe a prima vista apparire contraddittoria, è stata scientemente utilizzata per svilire le istanze che stanno a fondamento dell’avversione di taluni settori della società civile alle politiche governative, soprattutto a quelle del governo “tecnico” di Mario Monti e dei suoi successori almeno fino al 2018.

Al di là della superficialità che ha spesso caratterizzato i moti popolari definiti “populisti” o “sovranisti” e della loro frequente strumentalizzazione partitica, è opportuno comprendere gli aspetti di verità politica che ne stanno alla base e le istanze di giustizia sociale cui sono, talvolta inconsapevolmente, ispirati.

Nella lunga fase storica dopo la seconda guerra mondiale, segnata dalla contrapposizione fra mondo libero e comunismo, la libertà del mercato fu rivendicata dagli ambienti produttivi della società e da tutte le forze politiche che si richiamavano ai valori occidentali della libertà civile ed economica in opposizione alla statolatria sovietica e al dirigismo economico verticistico del socialismo reale.

Nello stesso periodo di tempo le classi dirigenti in Italia costruirono, in collaborazione sostanziale, anche se spesso conflittuale, tra imprenditoria, classe operaia e operatori delle professioni e dei servizi, un sistema di welfare che innalzò significativamente il benessere sociale grazie alle libertà garantite dalla democrazia a sfondo liberale e cristiano.

Non tutto fu vero oro quel che luccicava. Quel processo, di carattere tendenzialmente positivo, fu inquinato da alcune gravi anomalie, cui è doveroso qui sinteticamente accennare: i) la disgregazione dell’ethos morale del popolo italiano provocato dalla cultura nichilistica dominante nei piani alti della cultura e nella volgarizzazione mediatica; ii) la corruzione di larga parte della cosiddetta politica, accompagnata dalla connivenza verso le ingenti ruberie compiute dalla classe imprenditoriale a scapito della solidità economica e finanziaria delle imprese; iii) l’infiltrazione della criminalità di tipo mafioso nell’economia e nella politica grazie agli immensi profitti derivanti da attività illecite non adeguatamente contrastate sul piano amministrativo e giudiziario.

Detto ciò affinché il presente discorso non sembri una sterile e controproducente laudatio temporis acti – ché, anzi, i fenomeni sovra accennati costituirono anche un rilevante fattore concorsuale degli eventi successivi – va detto che fino al termine degli anni ’80 del secolo scorso il tema politico della giustizia sociale, con l’esigenza conseguente di tutela delle classi più disagiate sul piano sanitario, del sostegno alle famiglie e alla maternità, di garanzia del sistema pensionistico e dell’equa remunerazione del lavoro salariato, restò centrale per tutti gli schieramenti politici, del centro della sinistra e della destra, sul presupposto che spettasse allo Stato garantire i diritti sociali delle popolazioni, bilanciando gli interessi collettivi con quelli privatistici di coloro, individui o imprese, che operavano liberamente nel mondo dell’economia e della finanza.

2. La centralità dei diritti sociali nella Costituzione. – I diritti sociali, rubricati ai titoli II e III della Costituzione sotto la denominazione “Rapporti etico-sociali” e “Rapporti economici” (artt. 29 – 47), posseggono un rilievo determinante nel patto sociale stipulato nel 1948 tra lo Stato e i cittadini con la promulgazione della Carta, confermato dal libero plebiscito elettorale del 18 aprile 1948, che assegnò la guida del Paese alle forze di ispirazione cristiana e liberale, respingendo la proposta politica del socialcomunismo.

Non è possibile in questa sede approfondire l’influenza rispettiva che esercitarono le tre grandi famiglie ideologiche – cristianesimo sociale, liberalismo e socialismo – sulla configurazione giuridica delineata dalla Costituzione in ordine ai rapporti etico-sociali ed economici. Taluno ha parlato di una confluenza quasi paritaria delle tre tendenze.

A me pare – ma enuncio una mia semplice opinione, senza pretesa alcuna di certezza – che determinante sia stata l’influenza della dottrina socio-economica della Chiesa secondo la mens della Rerum Novarum di Leone XIII. Il Pontefice scrisse l’Enciclica in un tempo in cui la trasformazione industrialista dell’economia aveva provocato “la divisione della società in due classi separate da un abisso profondo”[1], nel conflitto aspro tra il capitale e il lavoro. L’intento fu di ristabilire la pace, con la severa condanna della lotta di classe[2], ma, al contempo nella consapevolezza “del fatto che la pace si edifica sul fondamento della giustizia: il contenuto essenziale dell’Enciclica fu appunto quello di proclamare le condizioni fondamentali della giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora”[3].

Orbene, alla luce anche delle tragiche esperienze delle due guerre mondiali, la Costituzione impose alcuni presidi a tutela dell’economia, alla cui base stava l’idea dell’impresa come istituzione, in cui assumeva un ruolo centrale l’interesse sociale, con il superamento della nozione meramente contrattualista dell’impresa di conio liberale. L’impresa è un bene dell’intera società, non soltanto degli azionisti: quindi, non è a totale loro disposizione, come se ai capitalisti e ai loro managers fosse lecito adottare indiscriminatamente strategie in pregiudizio di coloro che oggi si denominano stake-holders – i lavoratori, i fornitori e l’erario –, ovvero in danno dell’intera società, esternalizzando anomicamente nell’ambiente i costi sociali dell’attività produttiva.

In virtù dei princìpi statuiti agli artt. 2, 3 e 4 della Carta spetta allo Stato promuovere i diritti sociali ed economici dei cittadini, in particolare garantendo che la libera iniziativa economica non sia svolta “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, co. 2 Cost.)[4]. L’art. 41 Cost. va interpretato nel senso che esso “… limita espressamente la tutela dell’iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore”[5]. Le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori[6].

Il divieto dell’attività economica in contrasto con l’utilità sociale, di cui all’incipit dell’art. 41 co. 2, trova un criterio di concretizzazione  nell’esigenza di bilanciare gli effetti di progresso economico e il favor verso l’esplicazione della libertà individuale con i rischi che l’esercizio senza limiti di questa libertà comprometta il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), il diritto a un’equa retribuzione, sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.) e, da ultimo, ma non per ultima cosa, inibisca alla “Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo della persona umana …” (art. 3 co. 2 Cost.).

Il bilanciamento tra i vantaggi sociali, oltre che individuali, della libertà dell’iniziativa economica e i costi che l’esercizio di tale libertà esternalizza nei confronti dell’intera collettività o di alcuni settori di essa va compiuto dal legislatore secondo criteri di ragionevole discrezionalità, anche nel solco del favor libertatis che ispira la Costituzione nel suo insieme. Quando, però, i costi sociali, anche soltanto relativi alle disuguaglianze sistemiche, esponenzialmente crescenti, sono provocati da contegni decettivi, fraudolenti, elusivi delle norme che regolano l’attività economica e che riguardano i rapporti con il diritto finanziario dello Stato, allora la legge ha il compito di intervenire per effettuare il bilanciamento costituzionalmente doveroso tra i diritti e gli interessi correlativi tra le parti sociali più forti e quelle che appaiono fragili nell’ambito dei rapporti produttivi.

3. Il collasso dei diritti sociali nella fase storica delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni. – L’intensa liberalizzazione della vita economico-finanziaria, iniziata nei primi anni ’90 del secolo scorso, ha via via abbattuto i presidi pubblicistici a tutela del mercato.

Il processo, imperniato sull’ideologia che il privato fa meglio del pubblico e che la libertà dei mercati è capace di autoemendarsi correggendo spontaneamente gli abusi, ha condotto all’abbandono delle dottrine keynesiane in economia e alla svalutazione legislativa dei diritti sociali garantiti dallo Stato. Il diritto penale, in quanto espressione della sovranità del pubblico, ha conosciuto un declino nella concreta applicazione, al punto tale che le grandi rapine dei beni pubblici compiute con operazioni di leveraged by out sono state raramente oggetto di indagine penale. Né il diritto pubblico, amministrativo e penale, è stato per lungo tempo implementato in modo da renderlo adeguato a contrastare i meccanismi abusivi più rovinosi della finanza globalizzata.

Sul piano ideologico – e, a cascata, su quello giuridico costituzionale – il processo di devitalizzazione dello Stato a vantaggio dei mercati si è avvalso dell’allocazione delle decisioni di politica economica a livello di istituzioni internazionali di carattere tecnocratico, insuscettibili di subire un qualsiasi condizionamento democratico, sul rilievo che la liberalizzazione dei mercati deve limitare fortemente la portata e la capacità di intervento della politica economica dei singoli Stati e, dunque, ostacolarne l’intervento regolatore.

Ciò in linea con l’idea, espressa programmaticamente da Hayek fin dal 1939[7], in ordine al primato del mercato sugli Stati. Questa idea, rafforzata di molto dal crollo dell’Unione Sovietica e del sistema economico e politico socialista, ha generato l’illusione di una crescita globale senza ostacoli in virtù delle nuove applicazioni tecnologiche e dell’apertura dei mercati al dio supremo della concorrenza, costituendo il filo rosso del racconto politico economico e finanziario divulgato quasi senza opposizione per circa un trentennio.

L’illusione si è però scontrata con la realtà. La graduale degenerazione del sistema economico-finanziario, in forza del principio dell’assoluta libertà dei mercati, ha provocato il massimo e ingovernabile disordine, di cui la crisi mondiale del 2008-2010, con epicentro nel Paese guida del processo, è stato l’episodio più drammatico.

La perdita di sovranità a favore dei mercati ha limitato in modo considerevole la partecipazione politica dei popoli alle decisioni degli Stati, che si sono piegati ai mercati, rinunciando a ogni esigenza regolativa, poiché i mercati sono sempre più indispensabili per finanziarli. Di qui il fallimento della democrazia sociale, in quanto le forze politiche, non rendendosi conto dell’erosione del capitalismo sociale del dopoguerra “… durante il boom illusorio degli anni novanta hanno rinunciato a regolamentare l’espansione del mercato finanziario[8]. Hanno con ciò dato troppo benevolmente credito all’idea fallace che una governance flessibile a gestione privatistica sarebbe stata più vantaggiosa di un governo serio dell’economia munito di presidi coercitivi[9].

Per l’Europa il motore della liberalizzazione è stato la Comunità europea, che si è data, a partire dall’Atto unico europeo del 1985, il programma dell’espansione della libertà del mercato tramite il famoso quadrifoglio delle libertà: delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi.

L’unificazione economica e, poi, monetaria, ha funzionato obiettivamente come via breve per pervenire all’unificazione politica, eludendo le resistenze che vasti blocchi sociali all’interno dei singoli Stati, soprattutto in Francia e nei Paesi del Nord Europa, frapponevano all’approdo politico del processo.

I governi italiani che si succedettero per circa un ventennio tennero nascosto all’opinione pubblica il significato di questo processo, trascurando anche la difesa degli interessi italiani nell’ambito europeo. Il nostro Paese fu colpevolizzato incessantemente dai governi e dai media degli Stati europei egemoni a cagione dell’ingente gravame del debito pubblico nazionale. Nelle fasi dei governi Berlusconi, inoltre, un fronte interno assai largo ricercò anche senza ritegno la sponda estera per rovesciare gli esecutivi da lui guidati. L’operazione riuscì infine nel 2012. Ciò evidentemente nocque molto alla credibilità internazionale dell’Italia e indebolì in modo drammatico il suo rating di debito.

L’esecuzione del programma di liberalizzazione fu guidata dalla Commissione europea, che sollecitò per l’Italia un programma imponente di privatizzazioni (le c.d. “riforme”), a cui la classe dirigente del Paese si sottomise, anche in settori prossimi a interessi strategici della nazione, come, per esempio, nel settore delle telecomunicazioni, consentendo la rapina a mano armata del gioiello Telecom. La Corte di Giustizia europea, in sinergia con la Commissione, partecipò altresì al processo di smantellamento dei poteri dello Stato, utilizzando, non senza un certo margine di arbitrarietà a seconda degli Stati coinvolti nei procedimenti, la scure a doppio taglio della libertà di concorrenza e dei divieti degli aiuti di Stato, paralizzando il potere di intervento del governo italiano.

Il deficit di democraticità dell’Europa è stato denunciato in modo prevalentemente retorico dagli studiosi di diritto pubblico. Si tratta invece di un difetto strutturale che attenta al corretto funzionamento del sistema. Infatti il gap di democrazia non riguarda soltanto la quasi totale irrilevanza dei poteri del Parlamento europeo sulle questioni di politica economica, ma, soprattutto, le modalità di assunzione delle decisioni a livello di Consiglio europeo, che estromettono dal circuito decisorio i Parlamenti nazionali e le stesse opinioni pubbliche dei paesi membri.

In Italia l’allocazione delle decisioni di politica economica all’esterno del perimetro parlamentare è avvenuta a partire dall’adesione all’Atto unico europeo del 1985 con successivi passaggi graduali i cui momenti cruciali sono stati la riforma dell’art. 117 co. 1 della Costituzione con L. cost. 18 ottobre 2001 n. 3 e la riforma dell’art. 81 della Costituzione con L. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Con il “pareggio di bilancio”, in vero, ancorato alla Costituzione, si limita la libertà degli elettori e dei governi futuri in ordine alla gestione della finanza pubblica, garantendo ai creditori dello Stato (“i mercati”) che qualsiasi manovra di politica finanziaria non sarà rivolta contro di loro, bensì contro i pensionati e gli assicurati dell’assistenza sanitaria. Lo Stato, in altri termini, dichiara di non voler esercitare la sovranità nei confronti del popolo dei mercati, ma soltanto nei confronti dei soggetti deboli presenti nel proprio territorio[10].

Il processo di liberalizzazioni e privatizzazioni ha eroso in modo consistente il sistema del welfare, generando un contesto economico di ridistribuzione ingente della ricchezza dal basso verso l’alto, con il conseguente ingiusto accrescimento delle disuguaglianze sociali.

4. La giustizia sociale come “superstizione”. – L’idea dominante del processo è imperniata sull’indimostrato assioma che i beni comuni sarebbero sempre e necessariamente mal gestiti[11], senza tener conto che i beni non sono tutti uguali e che l’etica impone delle priorità nel loro uso. La medesima idea giocò un ruolo decisivo nella privatizzazione dei beni comuni e delle proprietà demaniali nell’epoca borghese a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e nel periodo dell’unificazione italiana, provocando guasti sociali di portata incalcolabile, che sono stati rimarginati soltanto a prezzo di grandi difficoltà e con ingenti sacrifici sociali.

Nonostante l’esperienza abbia mostrato i danni al tessuto sociale, tale processo è stato giustificato a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso con argomenti di tipo efficientistico, che hanno convinto quasi senza alcuna eccezione le varie classi politiche, sia quelle dei liberali di sinistra che quelle dei liberali di destra. Nel ventennio 1990-2010, sul rilievo che la gestione privata, addirittura dei grandi conglomerati industriali, il cui efficientamento e gestione in sicurezza richiedono investimenti immensi in una prospettiva economico-finanziaria a lungo termine, si è svolto in Italia un rovinoso processo di privatizzazione, che ha impoverito il nostro Paese e, per logica conseguenza, le classi più basse della società.

Al principio costituzionale della giustizia sociale, che si basa su valori culturalmente diffusi e ha per criterio di misura la dignità e il benessere dei cittadini, si è sostituito il concetto di giustizia del mercato, espresso dal valore da questo attribuito alle prestazioni individuali in base al compenso relativo che esse ricevono in cambio. La giustizia sociale avanza pretese in tema di correttezza, di lealtà, di equità; riconosce i diritti umani alla salute, alla sicurezza sociale, al lavoro, etc. La giustizia del mercato considera tali valori irrilevanti. Secondo Hayek, la giustizia sociale è semplicemente una superstizione: “Ciò con cui si ha a che fare nel caso della ‘giustizia sociale’ è semplicemente una superstizione quasi religiosa che si dovrebbe lasciar perdere finché essa serve unicamente a rendere contento chi la detiene, ma che si deve combattere nel momento in cui diventa un pretesto per costringere gli altri. La fede diffusa nella ‘giustizia sociale’ è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera”[12].

Il percorso verso la completa liberalizzazione dei mercati vede costantemente nella politica un pericoloso ostacolo. Invero, la giustizia del mercato sarebbe, al contrario di quella statale, impersonale e oggettiva, trasparente e universale, non contaminata dagli interessi particolari.

Il modello iper-liberistico ha esplicato i suoi effetti non soltanto sul piano della governance politica, ma anche sul piano culturale della funzione del diritto. Il diritto è stato trattato come se fosse servile rispetto all’economia. Il diritto, invece, ha un ruolo fondamentale per realizzare gli obiettivi di giustizia. Il diritto, infatti, è la scienza della giustizia, cui spetta contribuire alla distribuzione delle utilità che provengono dall’economia. Il giurista non deve chinarsi prono alle istanze degli economisti che sostengono le strategie del capitalismo finanziario. Così facendo, la scienza giuridica diviene servile di fronte alle riforme che scardinano la tutela giuridica dei beni comuni nell’interesse della collettività. Il giurista inoltre sa che il diritto, per quanto non sia di creazione integrale da parte dello Stato, ha bisogno di un potere superiore che conferisca a esso – costituitosi secondo i suoi diversi formanti – certezza e stabilità, rendendo efficace per tutti gli obblighi che nascono dalle sue regole. Questo potere è a tutt’oggi lo Stato.

5. Per una politica popolare in uno Stato sovrano. – La giustizia sociale non è una superstizione, ma l’obiettivo che la politica – tramite lo Stato – deve perseguire opportune et importune, nella consapevolezza che la strada per conseguirla è ardua, costellata di ostacoli, lastricata di conflitti, perché lungo il suo corso si ergono continuamente ostacoli quasi insormontabili: l’egoismo individuale e delle categorie; la corruzione dei governanti; le esigenze di giustizia degli altri Stati; le strutture e i condizionamenti internazionali; gli interessi geopolitici mondiali delle grandi potenze e quelli regionali delle medie potenze. Né il percorso verso la giustizia sociale è breve; né può essere concluso tutto in un momento. Né la giustizia sociale è una meta fissa e definitiva, ché, anzi, una volta che sia stato raggiunto un traguardo intermedio, esso immediatamente svanisce e la corsa deve essere iniziata nuovamente da capo. La gradualità nell’adozione dei mezzi per raggiungere i fini e la prudenza necessaria per evitare il più possibile le reazioni punitive di coloro che detengono le leve del potere finanziario internazionale – i cosiddetti “mercati” – non toglie che il fine della giustizia sociale deve essere chiaro e deve essere assunto come oggetto di una politica radicalmente diversa da quella che ha caratterizzato la storia dell’Italia dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso fino invariabilmente a oggi.

Alla luce delle considerazioni svolte è possibile cogliere il significato positivo delle istanze popolari che sono state svilite e schernite con i termini di “sovranismo” e “populisno”.

Con l’aiuto della ragione politica l’istanza diretta al recupero della sovranità dello Stato significa in primo luogo che lo Stato italiano deve rivendicare il proprio diritto primario alla tutela della comunità nazionale in tutti i suoi interessi strategici, al vertice dei quali stanno i valori etici che hanno fatto del nostro Paese – delle varie Italie – uno dei protagonisti storici della civilizzazione occidentale; in particolare i valori della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, come icasticamente statuisce l’art. 29 della Costituzione.

Vengono poi altri interessi strategici. Tra cui: l’equo controllo dell’immigrazione, in collaborazione con gli altri Stati europei e nel confronto serio con gli Stati di provenienza dei migranti; la tutela delle imprese strategiche che gestiscono i beni comuni, l’energia, l’acqua, l’ambiente ecologico e l’ambiente economico-finanziario.

In secondo luogo l’istanza diretta al recupero della sovranità nazionale impone di rendere il Parlamento – e, conseguentemente, tutta la collettività nazionale – consapevole e partecipe dei procedimenti e delle decisioni che vengono assunte a Bruxelles e nelle altre sedi europee, oggi coperte dal segreto e da oscuri accordi trasversali stipulati tra burocrazie anonime quasi onnipotenti e i ministri degli Stati membri nella più completa asimmetria di valutazione degli interessi di ciascuno Stato.

Con l’aiuto della ragione politica l’istanza sbeffeggiata con il termine di “populismo” importa che il popolo deve tornare a essere attore del proprio destino. Senza alcuna retorica questo asserto ha rilevanza sotto un duplice profilo, sia in senso attivo che passivo.

In primo luogo conta il profilo attivo. Il popolo non deve essere considerato soltanto come recettore passivo di provvidenze ed elargizioni, più o meno satisfattive delle esigenze che vengono presentate con più forza. Deve essere considerato e valorizzato come protagonista effettivo di un processo di risanamento dell’etica pubblica e dell’economia nazionale nel difficile percorso dell’innovazione tecnologica e dell’applicazione pratica delle scoperte scientifiche, con l’assegnazione del primato nella spesa a favore della scuola e delle istituzioni universitarie.

Affinché l’appello alla gioventù non suoni come semplice premessa retorica di un discorso diretto a catturare simpatie a buon mercato, ma costituisca esortazione concreta ed efficace all’operosità delle nuove generazioni, occorre infine che la narrazione sui giovani ricominci a valorizzare i princìpi che fanno leva sul sacrificio personale e sul dovere di solidarietà, nonché a premiare l’impegno austero per una vita buona in vista della felicità personale e della pace sociale contro le soddisfazioni immediate ricavate da consumi di tipo individualistico ed edonistico.

Mauro Ronco 

 

Pubblicato su Centro studi Rosario Livatino (CLICCA QUI)

 

 

[1] Leone XIII, Lett. enc. Rerum Novarum (15 maggio 1891): Leone XIII P.M. Acta, XI, Romae, 1892, 97-144, in particolare: 132.

[2] Ibidem, l. c., 109 s.

[3] S. Giovani Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), in Tutte le encicliche di Giovanni Paolo II, seconda ed., Milano, 2005, 820.

[4] Gallo, Il diritto e l’economia. Costituzione, cittadini e partecipazione, AA.VV., Percorsi giuridici della postmodernità, Bologna, 2016, 102, secondo l’Autore “la formula dell’art. 41 rappresenta il punto di confluenza della tradizione liberale, del solidarismo cattolico e del dirigismo socialista” (108); Galgano, Sub art. 41, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione. Rapporti economici, II, Bologna-Roma, 1982, 1; Niro, Sub art. 41, in AA.VV., La Costituzione italiana. Principi fondamentali. Diritti e doveri dei cittadini. Commento agli artt. 1-54, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Torino, 2007, 846.

[5] C. Cost., 29 ottobre 1999, n. 405.

[6] C. Cost. 20 dicembre 1996, n. 399. Sul bilanciamento dei diritti costituzionali con i beni dell’ambiente e della salute, v. anche le sentenze C. Cost., 9 maggio 2013, n. 85; C. Cost., 23 marzo 2018, n. 58.

[7] Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in Id. (a cura di), Individualism and Economic Order, Chicago, 1980 [1939], 255-272.

[8] Streeck, Gekaufte Zeit. Die vertagte Krise des demokratischen Kapitalismus, Berlin, 2013; tr. it Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, 2013,96.

[9] Su cui v. Offe, Governance. “Empty Signifier” oder sozialwissenschaftliches Forschungsprogramm?, in Schuppert, Gunnar Folke, et al., (a cura di), Governance in einer sich wandelnden Welt, Wiesbaden, 2008, 61-76.

[10] Sulla riforma dell’art. 81 Cost. v. Bilancia, Note critiche sul c.d. “pareggio di bilancio”, in Rivista AIC, 2012, 2; Brancasi, Il principio del pareggio di bilancio in Costituzione, in Osservatorio sulle fonti, 2012, 2; D’Auria, Sull’ingresso in costituzione del principio del “pareggio di bilancio” (a proposito di un recente parere delle sezioni unite della Corte dei conti), in Foro it., 2012, 1/3, 55; De Grazia, L’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (tra vincoli europei e zelo del legislatore), in Giur. cost., 2012, 3, 2483.

[11] Alesina, Perotti, Budget Deficits and Budget Institutions, in Poterba, von Hagen (a cura di), Fiscal Institutions and Fiscal Performance, Chicago, 1999, 13-36.

[12] Hayek, Recht, Gesetzgebung und Freiheit, vol. 2, 1981; tr. it. Legge, Legislazione e libertà, Milano, 2010, 268.

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