Giorgia Meloni sembra alla continua ricerca di credibilità e di consenso. Componenti varie s’intrecciano in uno stato psicologico che pare influenzare l’azione politica, internazionale e interna, della Presidente del consiglio. Noi riteniamo che il mondo sia mosso dalla forza delle cose e, così, siamo restii alla personalizzazione dei fenomeni politici. Lasciamo quindi agli psicologi di professione l’esame di quanto il carattere e la sedimentazione intima propria di chi guida un paese possa finire per influire sulla sostanza della propria azione di governo.
Giorgia Meloni, comunque, è frutto di una lunga stagione di marginalizzazione dalla politica che conta, ma è riuscita a materializzare attorno a sé un malcontento che, finora, non ha ricevuto altra risposta valida, e questo non dovrebbe impedire di recepire i segnali che giungono dal mondo.
Ieri abbiamo dato un certo rilievo al tormento che sta nuovamente arrovellando gran parte del Regno Unito a due anni dalla Brexit (CLICCA QUI). Le cose non vanno bene da quel fatidico 1 febbraio del 2020 in cui essa divenne realtà sulla scia di grandi ambizioni e previsioni, già allora tutte da verificare. Anche scorporando gli effetti negativi della pandemia, e la parziale influenza dell’impennata dei costi delle materie prime energetiche, visto che il Regno Unito è produttore di petrolio ed ha, per quanto vecchi, 15 reattori nucleari in funzione, i dati macro economici, e le conseguenze pratiche che hanno sconvolto importazioni ed esportazioni dopo l’uscita dall’Unione europea, non sono buoni al momento e, soprattutto, non lasciano presagire niente di meglio per il futuro.
Inoltre, c’è un elemento che non può essere sottovalutato nell’ambito importante delle relazioni all’interno del mondo occidentale e che riguarda i britannici, ma anche Giorgia Meloni nel caso pensasse di appoggiarsi oltre Oceano. Gli Stati Uniti, su cui pensavano di poter contare anche i sostenitori della Brexit, precisano sempre meglio una visione asimmetrica della loro geopolitica mondiale. Se viviamo una fase di grande rinascita della Nato, è altrettanto evidente come gli Usa stiano perseguendo propri specifici disegni in altre aree del mondo e una politica economica all’insegna di quella “America first” che pure Joe Biden sostiene, sia pure con accenti diversi da quelli di Trump. In qualche modo, si fa sempre riferimento alla globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Ma riassumendo la presenza di quei fenomeni studiati dal Braudel che, nel suo “I Tempi del mondo”, vol III, parla di una coesistenza vissuta tra più numerose “economia -mondo”. In questo quadro, l’entità economica europea continua ad avere una sua forte valenza, anche se, l’Europa, fatica a procedere nella messa in comune di una politica estera condivisa e, con essa, di altrettanto comuni politica di difesa e della fiscalità.
Ecco perché gli esiti della Brexit riducono gli spazi di manovra a tutto quel sovranismo di cui ci parla Guido Puccio (CLICCA QUI). Un sovranismo che, comunque, prova a rialzare la testa dopo la clamorosa sconfitta incassata alle ultime elezioni europee di tre anni fa. E qualcuno pensa di provarci dall’Italia, sia pure camuffando il confronto con Francia e Germania come questione personale che riguardi Macron e Scholz? E a questo riguardo è doveroso riconoscere che l’Europa si è sviluppata all’interno di una collaborazione – competizione che non è una novità scoperta, e sofferta, da Giorgia Meloni. Ne sappiamo abbastanza sulla “concorrenza”, a volte anche condotta con colpi bassi, che ha sempre interessato un po’ tutti i settori vitali del nostro come degli altri principali paesi fondatori. Petrolio, chimica, settore bancario e assicurativo, grande distribuzione, cantieristica. Lungo sarebbe l’elenco di fronte al quale la cena da cui è stata esclusa Giorgia Meloni appare davvero come poca, se non pochissima cosa.
E tutto ciò nel contesto della vigilia del progressivo disimpegno della Bce dal vincolo “draghiano” del sostegno al debito pubblico con i consistenti acquisti dei titoli di stato dei singoli paesi. Basteranno le dichiarazioni di Giorgia Meloni, comunque sono in continuità con l’impegno italiano degli anni scorsi, per giungere ad ottenere il riconoscimento di un “debito comune europeo”? E allora, è buona cosa continuare con questa polemica estrema con Francia e Germania? Quando sappiamo che i primi ad andarci contro sulle questioni di finanza pubblica che contano saranno quegli improbabili alleati di polacchi ed ungheresi, oltre ad altri del cosiddetto patto di Visegrad?
Attenzione dunque ad immaginarsi la realtà non per quello che è ma per quello che ci vogliamo immaginare. In particolare, questo riguarderà l’Europa e le relazioni complessive con gli Stati Uniti. Interessati certo ai rapporti con ogni singolo paese, ma senza rinunciare a salvaguardare il quadro d’insieme, che è poi quel che realmente interessa a Washington.
Mentre l’Italia ha continuato a battere l’accento sulla questione degli immigrati, con l’attenzione rivolta solo agli sbarchi e alle ricollocazioni, che è comunque cosa santa e giusta, francesi e tedeschi hanno preferito cominciare a ragionare sugli aiuti di stato, avviando il loro confronto in solitudine con Washington. Non è forse questa cosa molto più rimarchevole da considerare rispetto allo sgarbo ricevuto in occasione della cena con Zelensky? E gli aiuti di stato seguono l’apertura della strada alla nazionalizzazione di taluni settori vitali, quali quelle delle reti per l’approvvigionamento energetico verso cui procedono Germania e Francia.
C’è da chiederci quanto ci sia di costruttivo per noi dichiarare il superamento della cosiddetta “linea Draghi”, che ovviamente non è la Bibbia. Ma un tale preannuncio potrebbe significare l’andare oltre l’intenzione d’introdurre quelle modifiche al Pnrr e prospettare persino una modifica negli equilibri interni all’Unione? I sei mesi perduti per le elezioni anticipate fanno risaltare i ritardi che l’Italia conferma nell’utilizzo dei fondi. Questo sarà un altro tema di cui saremo chiamati a rispondere dagli altri dell’Unione giacché già ci si interroga sulla capacità di non perdere un qualcosa che vale già 40 miliardi degli oltre 200 che ci sono stati assegnati, se non di più (CLICCA QUI).
Da italiani, da contribuenti, non possiamo quindi che aspettarci una realistica analisi della situazione visto che decisioni prese sulla base di errori di prospettiva possono comportare danni seri per un Paese in cui si disertano i seggi come segno più evidente di una sfiducia e una rassegnazione che non sfuggono neppure a chi ci osserva da fuori e che pone davvero il problema della credibilità.
Giancarlo Infante