L’opera di Dante mette in contatto (per fatti, idee) molteplici realtà temporali, oltre alla sua e alla nostra. Quella di Fiorenza antica è un esempio; quella dimensione, in costante divenire, di coloro … che questo tempo chiameranno antico (XVII, vv. 110-120), ne è un altro.

Dante è figura politicamente complessa: è dovuto alle sue scelte e alle circostanze in cui si è trovato. Ma è ancora più complessa culturalmente; è questo dipende sì da lui e dalla sua epoca, ma ancor più da come, dopo di lui, si è sviluppata la cultura, su cui egli ha pur tanto influito. La sua opera apporta al germogliare dei tempi nuovi dell’Umanesimo-Rinascimento la fiducia che l’uomo e il suo ingegno possano molto (non tutto: valgono dei limiti stabiliti da Dio). E insegna a guardare, nel contempo, vicino e lontano; ad addentrandosi in ogni territorio e momento della cultura, per quanto problematici, con amore e determinazione.

Si sono dimostrate valide, preveggenti le sue analisi e scelte linguistiche. Nella Commedia, con il piglio, la risolutezza con cui si esprime, raggiunge il vertice possibile allora (e forse non solo) nell’arte della comunicazione: si avvale del sincretismo, del respiro universale della rappresentazione, dell’interconnessione passato-futuro, risolta in vari modi, tra cui le “profezie”. Trasmette forza, senso profondo delle cose, allorché, tenendo sempre al coinvolgimento (di lettori-ascoltatori-ripetitori-commentatori), elabora in presa diretta le sue certezze: l’amore di Dio per noi, la dignità insopprimibile della vita umana. E “vita” è anima, è il dono dell’immortalità.

Dante esprime in tutta la sua intensità il sentimento religioso medioevale: un’accettazione intima di Dio, a cui tutto va ricondotto, unita all’esercizio razionale di una critica a tutto campo. Il terreno che Dante predilige è figlio del suo tempo, ed è il più coinvolgente per tutti: coinvolge il soprannaturale rispetto al naturale, la salvezza rispetto all’esistenza terrena. La fede per lui vale (e già non sarà esattamente così per Boccaccio) quale matrice del sapere e del sentimento stesso, dell’essere e del vivere. Si capisce che la sua speranza, inesausta, voli alto, staccata da una realtà contingente fatta spesso di obbrobri; e che egli via via rafforzi una spiccata, forse innata, percezione dolorosa di una decadenza in atto, e inarrestabile. Il senso che ciò potrebbe avere nel disegno divino è di far capire che la restaurazione del bene deve avvenire, e quindi avverrà. Insomma, l’estinguersi dei sani principi e costumi, l’imperversare sregolato, offensivo del denaro (e più che mai fra gli ecclesiastici) sono indizi della necessità che la giustizia verrà fatta da Dio: agli uomini pare sfuggita di mano. Un provvidenzialismo che Dante cala nel concreto della storia, dei suoi eventi.

A differenza della rinascita cristiana (l’homo novus vaticinato da san Paolo) che ha neutralizzato l’umanità naturale del cristiano, fondandosi su atti (battesimo) e istituzioni (Chiesa) che non hanno origine umana, la restaurazione dell’umanità naturale dell’uomo, del suo essere naturale, costituisce un elemento distintivo nel concretarsi dell’umanesimo rinascimentale.

Però già la Commedia contribuisce molto al potenziamento del concetto di umanità, dato che (opera-mondo) tiene insieme l’essere cristiano e la naturalità dell’essere umano. Non solo è anticipatore e sempre attuale: Dante ci precede. Anche attraverso l’operazione, in fondo politica, affidata al suo alter ego Cacciaguida: nel passato sono i tesori morali necessari alla realizzazione della società gentile, seriamente e profondamente umana, cristiana, a cui l’esule e poeta mira. Rappresenta quanto di più nobile e condivisibile abbia attraversato e attraversi il tempo.

Ma lo captiamo che si tratta di un uomo radicato in una realtà assai remota; e che attinge al patrimonio culturale precedente, e a umori e tensioni di tramandata memoria. Soprattutto, il suo approccio alle questioni economiche non è aperto al dinamismo indotto dalla circolazione monetaria, dalle attività finanziarie. Proprio quelle attività che hanno, fin dai suoi tempi, reso l’Italia, allora dei Comuni, poi delle Signorie, un fulcro (centro di elaborazione e irradiazione) della modernizzazione, già quasi rivoluzionaria, legata all’economia capitalistica.

Con tutto ciò, attraverso la sua opera, attraverso la lingua nuova, Dante riesce -come Omero- a far transitare il patrimonio di un’epoca (il lungo profondo Medioevo, dell’età sua e precedente) in stadi susseguenti della storia. E accade poi che, in forme inusitate, emerga il mecenatismo laico; e che a Firenze e altrove il denaro serva a foraggiare la bellezza: e l’unione di questi “soggetti” pericolosi, a suo vedere, si innesti nel decollo del mondo moderno. Quando a Firenze viene coniato, nel 1382, il termine Umanesimo, nel corso di discussioni al convento agostiniano di Santo Spirito, ciò si deve anche all’essersi già avviata (e rinsaldata, nelle varie espressioni artistiche) la ricerca estetica, che è parte di un progressivo incivilimento, di un “risveglio che nasce in Italia, prima che nel resto d’Europa; ed è più intenso che altrove, caratterizzandosi specie per una curiosità sconfinata e insaziabile” (B. Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, Firenze, 1974, p.16).

Per Dante, invece, la bellezza, anello di congiunzione a Dio, vale in quanto espressione e mezzo di trascendenza. Non per se stessa: potrebbe fuorviare dal giusto cammino. Il ricercarla per puro piacere, o scopi prevalentemente materialistici, la snatura, la priva della sua vera essenza e finalità. Una società buona e vitale non può basarsi sul culto dell’apparenza: dentro da la cerchia antica (XV, v. 97) i costumi connotano rettitudine, civiltà, nobiltà vere. La configurazione morale e sociale di Firenze come secondo Dante è stata -è un sogno che possa rinascere- rispecchia un tradizionalismo fatto di un’austera deprecazione del presente, nel vagheggiamento delle glorie passate. È ciò che intriga sempre lo spirito critico dei fiorentini! Ma la visione mitizzata di Dante è illuminata dalla fede; dal richiamo forte della moralità francescana. Così è una povertà utile, santa per virtù civiche, quella che contrassegna il modello di civiltà urbana e lo “stile” di vita che Cacciaguida evoca. Una sobrietà, un senso della misura che appartiene ai giusti di ogni civiltà. Tali sono, per Dante, i fiorentini del passato. Cristiani seri: aspirano alla purezza, al superfluo rinunciano. Se Dante biasima le tendenze degenerative dovute all’errare del popolo cristiano, cedevole a diaboliche seduzioni, difende sempre la natura dell’essere umano. E il cavaliere, suo capostipite, si propone quale difensore di età e persone andate, eppure presenti. Tanto di positivo esse hanno apportato al tempo presente, anche se i loro esempi non vengono seguiti. La Firenze così cambiata non sarebbe riconoscibile dalle generazioni che, intorno all’antico Battistero, l’hanno fatta fiorire al sole delle loro virtù.

La voce di Cacciaguida ridà attualità a tempi -proprio quelli dell’origine degli Alighieri- in cui erano compresi certi obiettivi alti, eroici, e così gli innovatori veri, come san Francesco.

In questi canti, specie nel XV, risalta la potente semplicità della coesione sociale -tutt’uno con la probità dei costumi- e il valore di uno spazio “giusto”, affinché si possa sviluppare un’educazione alla salvezza. Uno spazio tale, secondo Dante, è esistito e, nel contempo, è atemporale e quindi riproponibile. Lo si riconosce dalla presenza di un’umanità attenta alle virtù cardinali; e dall’essere fertile terreno per quelle teologali. Nelle comunità ordinate, il perfezionamento spirituale non è materia dei soli pastori del gregge, ma dovere di ogni anima battezzata.

La nostalgia di Dante-Cacciaguida fa balenare un mondo compatto, partecipe dei medesimi sentimenti, che interagendo su uno spazio delimitato a sua misura si sente allacciato all’eternità che la grazia di Dio gli “dovrebbe” riservare. Questo tipo di comunità si avvicina a quelle che saranno improntate ai valori e ai comportamenti dei Puritani, in America. Anche l’antica Firenze è conscia del primato dell’innocenza, dell’onestà, e di essere sotto la protezione di Dio. Può pertanto godere, quella Firenze lì, del dono della pace: si stava in pace, essendo sobria e pudica (XV, v.99). Ogni degno cittadino deve contribuire al bene generale e vivere in modo austero e solidale, fiero della propria identità e della propria città. Così è stato, quando il seme della famiglia di Cacciaguida si è affermato, per diramarsi fino al suo ultimo rampollo; a cui il messaggio arriva da un tempo altro: “così riposato…viver di cittadini, così fida cittadinanza, così dolce ostello ” (XV, vv.130-132).

Eppure la gloria artistico-culturale di Firenze giunge al suo apogeo secoli dopo, in virtù del contributo anche di accresciute capacità e risorse capitalistico-finanziarie, quelle che per Dante già sono invasive, deleterie. È commovente come per certi stranieri, Dante si configuri pacificato nei confronti di forze, invece per lui oscure, come lo sono gli “spiriti animali” del mercato, quando essi, colmi d’ammirazione per Firenze, scrivano del Rinascimento. E giustamente lo definiscano un’età connotata da un’umana sete di trasformare ed estendere il mondo ideale e reale. Secondo l’ottica di Dante, invece, quel che conta è l’affermarsi, finalmente, della pace e della giustizia.

Perciò privilegia il senso e l’agire morale e politico: è alla ricerca di un mondo “rinato” per davvero, cioè nella verità; e ciò comporta anche il prepararsi alla fine dei tempi. Eventualità forse prossima per Dante e remota per noi, ma resta lì. E sentiamo “Dante vicino”, come titola Umberto Bosco. Più di altri poeti-pensatori, lui che abbraccia passato e futuro, ravviva la speranza di un approdo: salvezza per quanto ci è caro e la certezza “che Dio provvede a fin di bene”.

Nino Giordano

Il testo è tratto da “La Divina commedia in Italiano d’oggi” di Nino Giordano e Fabrizio Maestrini – per la casa editrice LEF di Firenze

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