Il segno più potente dell’ultimo saluto a Enzo Carra nel prezioso contesto barocco di San Carlo al Quirinale è stata la chiesa affollata di amici, molti rimasti a lungo in piedi attestando che egli era diventato, da tempo e per chiunque lo avesse conosciuto, un leader di fatto, un orientatore ed anche un impagabile narratore di vicende e fasi storiche che sapeva rileggere rendendole, come direbbe Benedetto Croce, sempre contemporanee. Ha attraversato le strade del tempo con una forza d’animo ed una lucidità che i suoi libri testimoniano senza alcuna retorica, perché anche nelle occasioni pubbliche, e addirittura nell’esercizio della politica, la sua argomentazione mai era intrisa di quel male italiano che trasforma una lingua accessibile in un artefatto di parole presto destinate all’oblìo. E qui un’annotazione è doverosa: stiamo parlando, anche in pubblico, di un uomo politico; non è il primo attributo che viene in mente considerando una personalità complessa come la sua. E non è inutile dire che la DC ha saputo far emergere storie e soggettività simili a quelle di Enzo Carra.

Chiunque abbia collaborato e lavorato con lui ha avuto la fortuna di imparare ascoltandolo: la sua conoscenza di uomini e cose era impareggiabile soprattutto perché sempre corretta dall’assenza di qualunque tratto di autoreferenzialità retroattiva, secondo un canovaccio caro a molti che sembrano in difficoltà nel separare vicende biografiche e cambiamenti sociali.

Il dialogo con lui è stato per tutti inscritto in quella che Francesco Giorgino, nella sua commovente memoria dell’uomo, ha definito “verità e profondità”. E allora non si può trascurare certo il drammatico torto subito dal populismo giudiziario, da lui sobriamente definito, nell’incipit di un suo libro, con una frase icastica e bruciante per chi la sappia intendere: il dottor Di Pietro non mi ha permesso di usare il biglietto di ritorno a casa. Già in quelle parole c’era tutta una prova di personalità e, se posso aggiungerlo, di “sofferenza cristiana”, che poi le pagine successive si incaricavano di stemperare nella narrazione dei fatti e nella loro interpretazione. Tutt’altra qualità rispetto alla gogna costruita in quegli anni anche dai media.

Difficile stabilire il dividendo di dolore che quel lungo episodio ha lasciato nella sua interiorità, ma ancor più impossibile pensare che sia stato senza conseguenze. Forse l’aspetto caratteriale che più gli è servito come leva per disarmare il dolore e il rancore è stata la sua straordinaria ironia: una risorsa davvero superiore in cui consisteva, se ho capito l’uomo, un suo elaborato divertimento, già manifesto perché scolpito nei tratti del viso e quasi divenuta una ruga espressiva del suo volto sorridente. Perché, diciamocelo, l’ironia è un intermezzo intelligente e sapiente per leggere la realtà senza rischiare il lamento o l’aspra critica allo stato di cose esistenti.

E’ stata davvero una vita plena quella di Enzo, come ricordato dall’altare, anche perché la sua presenza nelle Istituzioni, ma soprattutto nel dialogo con gli amici, serenamente faceva emergere quanto lui confessava di essere vissuto senza subire gli eventi e le inevitabili crisi di un’esistenza impegnata. Ad Enzo è toccato un ultimo dono inscritto nel sentimento dei presenti e nelle parole di quanti lo hanno ricordato pubblicamente, tutte probabilmente riconducibili al pensiero e alla memoria degli astanti.

Straordinaria la catechesi del Rettore della Chiesa e celebrante delle esequie, in cui egli è riuscito a intrecciare la vicenda artistica e la lettura architettonica di Sant’Andrea con la parabola degli ultimi anni di vita e di interazione che aveva avuto con Carra. Una sorta di “duc in altum!”, leggibile nella luce che precipita dalla fantastica cupola e che lo ha accompagnato nell’ultimo viaggio.

Poche volte come oggi è apparso a tutti quanto il Barocco sia uno straordinario esercizio di comunicazione e stimolazione della nostra spiritualità e delle emozioni. Lo stesso saluto finale di tre amici come Francesco Giorgino, Paolo Franchi e David Riondino è stato il congedo che lui forse avrebbe sperato, magari con un sorriso di finta disapprovazione. Parole del cuore, quasi pronunciate sull’onda dei visi di chi le ascoltava, con ricordi sfiorati perché bastavano accenni che i presenti potevano completare e attestare.

Esemplare la vicenda dei quindici amici e allievi rappresentata da Giorgino e espressiva di una funzione magistrale che intreccia formazione e amicizia, autoformazione e condivisione di valori. Umanissima la non mascherata difficoltà di Paolo Franchi nella ricostruzione di un rapporto mai solo pubblico con l’uomo, fino alla fantastica frase “devo chiamare Enzo” scaturita nella mente non ancora pronta ad accettarne la morte, quasi a presagio di un’immortalità del ricordo, e dunque della continuità di un dialogo. Anche l’ultimo amico che lo ha ricordato, David Riondino, ha impresso nella mente di tutti il suo viso, ricorrendo ad una straordinaria lirica autobiografica di Antonio Machado che davvero ha fatto riapparire il suo volto in una mirabile sequenza di parole, quasi un’anticipazione dell’umanità di Enzo Carra.

Noi crediamo e speriamo che lui possa aver percepito il sentimento che ha circondato il suo congedo. Ma abbiamo la certezza che quella “società del dono” che sapeva costruire ci ha regalato la possibilità di fargli sentire per tempo, e anche ora, il vincolo e la potenza dell’amicizia. E’ così che ci sembra convincente, non solo per lenire il dolore, il motto oraziano non omnis moriar.

Mario Morcellini

About Author