Finalmente è giunta in Parlamento la questione della ratifica del trattato di riforma del MES/ESM (Meccanismo Europeo di Stabilità) già sottoscritto nel 2011 da un precedente governo italiano. Mentre la coalizione di governo evitava di esprimersi con chiarezza sul punto e si baloccava con ipotesi di rinvio e su un possibile aggancio della ratifica ad altre questioni europee (come la riforma del Patto di Stabilità e Crescita), il ministero dell’Economia e Finanza (MEF) ha trasmesso, su richiesta del Parlamento, un parere favorevole alla ratifica del trattato segnalando che esso non comporta rischi per l’Italia e semmai alcuni vantaggi.

Questa posizione sembra aver sorpreso il governo che non era sinora riuscito a formulare la sua posizione e che ora deve trovare una qualche via di uscita dal cul de sac nel quale si è infilato.

Perché il governo si sia trovato in questa impasse è facile comprenderlo. Per molti anni il MES è stato usato dalle forze attuali di governo (e in particolare dalla Lega e dai Fratelli d’Italia) come drappo rosso da sventolare per aizzare in chiave elettorale settori dell’opinione pubblica captabili da nebulose teorie di congiure internazionali. Mentre nei fatti la politica del governo Meloni si è mossa con una buona dose di saggio pragmatismo su importanti questioni europee le è mancato il coraggio o la capacità, almeno per ora, di presentare queste scelte come parte di un disegno complessivo e fondato su una coerente cultura politica. Il drappo rosso è servito a tranquillizzare la base di partito che stenta ancora a capire dove si voglia andare. Ma è possibile andare avanti in questo modo magari temporeggiando (come anche su catasto e concessioni balneari)? Siamo sicuri che le istituzioni europee abbiano voglia di concederci sempre tempo (specie quando restiamo soli in ritardo?)

Benvenuta allora è la comunicazione del MEF (non a caso il ministero che con la sua partecipazione all’ECOFIN è il più organicamente implicato nei grandi flussi decisionali europei e ha tradizionalmente difeso per ragioni ideali ma anche concretissime l’integrazione dell’Italia nell’Unione). Costringe nei fatti a fare chiarezza e a sgombrare il campo dalla piccola politica. Sarà in grado il governo Meloni di cogliere questo “assist” ministeriale e di prendere una posizione chiara?  Lo vedremo presto e non sarà poco importante.

Quel che è certo è che l’avvicinarsi delle prossime elezioni europee, con tutto quello che comporteranno necessariamente in termini di assetti di potere al vertice dell’Unione (saranno in gioco la nuova presidenza della Commissione e del Parlamento, per non parlare di tante altre cariche) e di scelte sulle grandi questioni politiche sul tavolo (Ucraina, Mediterraneo e migrazioni, transizione ambientale, ecc.), sollecita tutte le forze politiche e i governi nazionali a riflettere attentamente sulle posizioni da prendere e sperabilmente a cercare una coerenza di visione.

Ci sono oggi due strade chiare: la prima è quella di chi è pienamente convinto che di fronte alla gravità dei problemi odierni l’unica strada sia quella di un rafforzamento della solidarietà europea e, per renderla veramente concreta ed efficace, anche delle risorse e degli strumenti istituzionali dei quali l’UE si è venuta dotando. Naturalmente questa strada non esclude che si partecipi attivamente e anche criticamente alle scelte che si devono fare. E questo lo si fa chiarendo bene le ragioni delle proprie eventuali critiche e cercando la convergenza su queste con altri paesi ugualmente convinti che questa sia comunque la strada giusta. Poi c’è l’altra strada, quella della difesa intransigente della sovranità nazionale (scommettendo che questa possa tuttora esistere).

La prima strada consente di partecipare in prima persona al “gioco europeo”, che è un gioco di grandi coalizioni, di larghe intese da costruire con pazienza e trovando mediazioni (non necessariamente perfette, ma comunque progressive) tra i diversi interessi in gioco. La seconda strada appare spesso attraente per alcune forze politiche (soprattutto quando non si è al governo) perché serve a scaricare i problemi su un “nemico esterno” e a solleticare le paure di un elettorato che fatica a comprendere bene quale sia la posta in gioco. Ma, come si è visto ripetutamente questa strada porta all’isolamento nelle sedi europee, perché ogni sovranismo ha i suoi interessi da difendere e non si cura di quelli degli altri. Quando si è al governo (come oggi la coalizione guidata da Meloni) chi volesse scegliere più o meno apertamente la seconda strada dovrebbe avere l’onestà di dimostrare quali vantaggi e quali costi ne verrebbero per il proprio paese. Pensando ai dossier dello sviluppo, della stabilità finanziaria, dell’emigrazione, della sicurezza nel Mediterraneo sembra arduo oggi spiegare quali vantaggi potrebbero venire per l’Italia dall’isolamento.

Ma se allora si abbandona la strada senza sbocchi del sovranismo tanto vale abbracciare con chiarezza e senza infingimenti la prima strada e gettare lì tutti gli sforzi dell’iniziativa politica.

Maurizio Cotta

 

 

About Author