L’intervista di Giorgia Meloni al Financial Times e un passo avanti in più verso il posizionamento dell’Italia nel campo internazionale dei conservatori, guidato da Trump.

E’ l’approdo verso cui appare ormai dichiaratamente orientata la Presidente del Consiglio, in nome di un’opzione che assume da esponente politico di quel mondo e non, piuttosto, in ragione dell’ “interesse nazionale” che non sta, evidentemente, in cima ai pensieri di chi allontana progressivamente l’Italia dall’Europa. Nella sovrapposizione dei due ruoli – Capo del Governo e leader politico – è il secondo a prevalere.

Si tratta d’un un percorso che – come su queste pagine, è già stato osservato – non prevede, ovviamente, un momento di frattura e di netto distacco dall’Europa, bensì un cammino condotto in porto attraverso un processo di avvicinamento asintotico, lento, continuo e progressivo a Trump, come se l’Italia fosse destinata a finire nella sua area di influenza non tanto per una scelta deliberata, bensì per una sorta di inderogabile necessità che sta nell’ordine delle cose, cioè dello sviluppo complessivo dei rapporti di forza a livello internazionale. Si tratta di addormentare il gioco e tenerlo, in certo qual modo, coperto fino al momento giusto, perché gli italiani abbocchino e, magari, pure ringraziano. A tal fine possono tornare utili i dazi e perfino qualche iniziale carineria nei confronti dei militanti pacifisti di casa nostra, preoccupati, come la Meloni, che una presenza di dissuasione militare
dell’Europa in Ucraina possa turbare il sonno dei giusti e sembrare a Putin una minaccia…..con buona pace di uno Zelensky, ormai del tutto al di fuori dai radar di Roma.

In quanto all’Europa, Giorgia Meloni (in modo che a Washington, anzi ancor prima a Mar-a-Lago, capiscano ben bene la sua postura) aderisce al pensiero di Vance . Il che vuol dire starci pure in Europa – né , come già detto, potrebbe essere diversamente – ma concorrendo, fin d’ora, ad eroderne la credibilità. Pontiere o, piuttosto, quinta colonna?

Dall’intervista di cui sopra appare evidente dove batte il cuore del pensiero politico di Giorgia Meloni, culturalmente e comprensibilmente lontana, vista la sua storia, da una schietta e vera posizione europeista, appresa in fretta e furia e mostrata per forza di cose, una volta approdata a Palazzo Chigi.

Ovviamente la questione merita ben altro approfondimento, ma tanto basta perché gli italiani si sentano autorizzati a chiedere cosa ne pensi il Ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, sicuramente non immemore di guidare un partito liberal-democratico, almeno secondo l’intenzione e l’impronta originaria e, soprattutto, fortemente
e sinceramente europeista.

Ultima notazione: il tutto mostra come se c’è una rima di possibile e serio distinguo, pur senza sperare in una frattura, non è tra Meloni e Salvini, ma piuttosto tra i due e Tajani.  Nel primo caso, si tratta di competizione elettorale nell’ambito dello stesso perimetro politico; nel secondo, di una mascherata, eppure sostanziale dissintonia politica.

A che livello sta la soglia di sopportazione di Tajani, in ordine ad ambedue i suoi suddetti ruoli?

Domenico Galbiati

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