Quella che segue è la seconda parte del contributo di Daniele Ciravegna all’approfondimento in corso da parte di INSIEME in materia di Giustizia, coesione sociale e sviluppo possibile (CLICCA QUI). La prima parte è stata pubblicata ieri (CLICCA QUI

3. Ritornando al bene comune, esso dipende dalla qualità della vita, dipende quindi dalla qualità e quantità dei beni disponibili, ma anche dal rapporto fra le persone. Si può dire: dal rapporto fra le persone mediato dall’uso dei beni. In una comunità in cui prevalgano i principi di giustizia e di reciprocità (rapporti fra le persone); i beni messi in comune e usati per il bene di tutti e di ciascuno costituiscono il modo attraverso il quale si concretizza la ricerca del bene comune. Perseguire il bene comune significa creare una convivenza sociale corretta nella quale ognuno possa essere libero di esprimere se stesso e di progredire come membro della comunità delle persone; significa creare coesione sociale.

La Dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per l’economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare.

Vale la pena di far notare che “coesione sociale” non è equivalente a “integrazione sociale”. Quest’ultima si realizza in una società nella quale operano validamente meccanismi d’inclusione e di protezione sociale tali da portare una forte maggioranza della popolazione a una vita attiva e da costruire una distribuzione dei redditi sufficientemente equilibrata: si realizza seguendo un modello virtuoso di tipo economico. La “coesione sociale” concerne, invece, aspetti di natura sociologica: una situazione in cui valori, cultura e attitudini condivisi creano un ambiente nel quale aleggiano e si realizzano comportamenti cooperativi e solidali: fiducia e tolleranza reciproche che creano cospicuo “capitale sociale” e conseguentemente forte “coesione sociale”. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. E, oggi, è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.

Si può ancora aggiungere che il bene comune si realizza nella situazione in cui – oltre alla creazione di un ambiente sociale che favorisca lo sviluppo integrale e l’espressione delle capacità delle persone – si abbia un’adeguata disponibilità, per tutte le persone, di beni di consumo di elevata qualità per la persona e la collettività; quindi beni, compresi i beni relazionali e i beni naturali, distribuiti in modo sufficientemente equo e comunque in assenza di persone (i poveri) che non vi abbiano accesso nella misura richiesta per la loro sussistenza – e rispetto alla quale è anche necessario, in via strumentale, che vi sia un corretto equilibrio fra consumi e investimenti, affinché tale disponibilità sia sostenibile, cioè destinata a durare nel tempo, ricordando peraltro che non è sostenibile il processo di creazione di valore economico se non c’è una parallela creazione di progresso delle persone, di valore umano. Questo significa, nello specifico, l’accesso per tutti all’istruzione e al lavoro libero, dignitoso, creativo, partecipativo e solidale, elementi chiave sia per lo sviluppo e la giusta distribuzione dei beni fra le persone sia per il raggiungimento della giustizia sociale, premessa indispensabile per l’integrazione sociale che porta alla coesione sociale, che tiene assieme la comunità, facilita l’acquisizione di capitale umano e dipende fortemente dalla diffusione di beni relazionali generati dalla pratica della reciprocità.

Fra i predetti, posizione centrale è il principio del “lavoro dignitoso”, in quanto centrale nella DSC è il pensiero che “non c’è sviluppo se non c’è crescita nella dignità della persona umana”. Questo non può non applicarsi anche al lavoro, il quale realizza la sua qualità con riferimento a cinque connotati: i) essere un lavoro decente, di qualità, per l’attività svolta, l’ambiente di lavoro in cui essa viene svolta, la sua autonomia decisionale, l’interazione con i colleghi e con l’organizzazione, la capacità di far realizzare la persona del lavoratore e le sue possibilità di crescita e di miglioramento; ii) avere una remunerazione giusta; iii) avere una buona copertura di tipo previdenziale nei confronti di malattia, infortuni, invalidità, disoccupazione e vecchiaia; iv) produrre cose buone (materiali così come immateriali e relazionali) per il lavoratore, la sua famiglia e per il bene comune della collettività; v) rispettare l’ambiente naturale. I cinque, insieme, connotano la misura del lavoro dignitoso. Questo determina la soddisfazione del lavoratore per la propria vita, che può essere scissa in due fattori: il benessere economico e quello lavorativo – che comprende lo standard di vita lavorativa, la retribuzione e tutti gli aspetti tangibili e monetizzabili, la possibilità di conciliazione vita-lavoro (potremmo dire, gli aspetti oggettivi) – e il benessere soggettivo personale e sociale, che attiene a tutti gli elementi legati alla salute fisica e psichica, alla vita famigliare e ai rapporti sociali. Con uno slogan: il lavoro è dignitoso quando rispetta la vita delle persone (sia in termini individuali e famigliari sia in termini comunitari) e dell’ambiente naturale.

In termini generali, implica anche il richiamo al concetto di benessere complessivo: non solo economico (welfare), bensì benessere complessivo della persona (well-being); quindi anche benessere culturale, spirituale, religioso; il benessere della persona umana assunta nella sua integralità e, inscindibilmente, della comunità in cui vive, a tutti i livelli territoriali, fino all’intera umanità: l’integralità della persona all’interno della comunità umana integrale.

La distinzione sopra riportata si rifà all’economista inglese di origine indiana A. K. Sen che ha smembrato il concetto inglese di benessere, in due vocaboli: welfare, per indicare lo stato di benessere relativo a particolari atti o eventi, con una connotazione materialistica e well-being (tradotto in italiano con l’espressione “star bene”) che ha in sé un significato più ampio, poiché va oltre il tradizionale approccio utilitaristico e incorpora l’esercizio delle libertà fondamentali, la capacità di fare le proprie scelte e di realizzare la propria personalità. (Cfr. Sen, The Standard of Living (The Tanner Lectures on Human Values, 1985), Cambridge University Press, Cambridge (UK), 1987) .In questa prospettiva, un disoccupato potrebbe essere nelle condizioni di poter soddisfare i propri consumi primari e, tuttavia, “non star bene”.

Fra le determinanti del “lavoro buono” c’è che il salario sia giusto e ciò, in diversi paesi ha portato all’istituzione di un salario minimo garantito per legge per tutti i contratti di lavoro, una guarentigia che mira a evitare casi di sfruttamento nell’impiego del lavoro: si vuole evitare che il rilevante squilibrio nel potere contrattuale delle parti presenti nel mercato del lavoro porti a livelli salariali troppo bassi (rispetto al livello della produttività del lavoro nel sistema economico e/o rispetto alle esigenze di vita dei lavoratori e delle loro famiglie). Dovrebbe assicurare a tutti i lavoratori un pavimento non perforabile all’ingiù, per motivi di equità retributiva e di dignità personale del lavoratore e della sua famiglia.

Come sempre, la questione non può produrre un dibattito politico fondato se non si è in grado di elevarla al livello dei valori. Nella fattispecie, il punto di partenza non può essere che il principio del giusto salario e su questo la Dottrina sociale della Chiesa ha sempre avuto posizioni ben definite, che possono essere sintetizzate nel modo seguente. “Giusto” è il salario sufficiente al sostentamento del lavoratore e della sua famiglia; non basta il semplice accordo fra lavoratore e datore di lavoro per qualificare giusta la retribuzione, poiché la giustizia naturale (che esige che il lavoratore abbia la possibilità, lavorando, di mantenere se stesso e la sua famiglia) è anteriore e superiore alla libertà del contratto, tenendo comunque conto anche delle condizioni dell’impresa. La giustizia del salario non si deve misurare solo con criteri quantitativi, ma anche in rapporto alla giustizia sociale e a un insieme di fattori che garantiscono un tenore di vita dignitoso, in senso materiale, sociale, culturale e spirituale, sua e dei suoi famigliari. Nel definire il salario, si deve tener conto, oltre che delle condizioni di maggiore o minore bontà dei risultati economici dell’impresa, anche della necessità di evitare un’eccessiva disuguaglianza dei redditi tra i diversi componenti di un’impresa e fra le diverse imprese.

Non c’è qui spazio per trattare, seppure sommariamente, delle determinanti del salario di mercato. Voglio, ad ogni modo, sottolineare come il mercato del lavoro non sia solamente un’istituzione economica, all’interno della quale il salario è da intendere unicamente quale prezzo del servizio lavoro determinato dall’incontro della domanda e dall’offerta di lavoro. Come dice il titolo di un celebre volumetto scritto dall’economista  statunitense Robert M. Solow, “il mercato del lavoro è un’istituzione sociale”, nel quale domanda e offerta di lavoro non determinano completamente il salario di mercato. Questo ha il vincolo dell’ammontare del quid ripartibile fra le due parti (lavoratore e datore di lavoro) e dipende dal potere contrattuale delle due parti (fattori di natura economica), ma anche da altri fattori di natura etica (le due parti hanno idee ben chiare di che cosa sia equo e di che cosa non lo sia) e sociologica.

Un altro economista Anthony B. Atkinson, gallese, sostiene che l’impostazione dell’economista vede le persone impegnate in transazioni razionali, impersonali; l’impostazione etica e sociologica le vede come membri interagenti di un’entità sociale. Le due impostazioni però non sono in concorrenza; è meglio considerarle complementari. Nei contratti collettivi di lavoro, si ha la forma di monopolio bilaterale. I salari sono influenzati da due insiemi di forze. Offerta e domanda determinano un intervallo di salari possibili e le convenzioni sociali determinano la posizione all’interno di quell’intervallo: l’estensione della dispersione delle retribuzioni dipende da entrambi gli insiemi. Detto con maggior precisione, l’introduzione di una nozione di equità o di norme sociali offre una strada per eliminare l’indeterminazione del punto di equilibrio nel mercato del lavoro, mercato di monopolio bilaterale. Una volta che ci si rende conto che le forze del mercato definiscono solo dei vincoli ai possibili esiti del mercato del lavoro, si vede che c’è spazio per idee di equità e che, mettendole all’opera, possiamo modificare la distribuzione delle retribuzioni. Questo non avviene a livello di negoziazione individuale, bensì dipende – e in alcuni paesi è il punto nodale – dalla contrattazione collettiva, nella quale svolgono un ruolo importante le convenzioni sociali e il potere contrattuali delle parti sociali.

A questo proposito, vi è un consenso generale sul fatto che l’allargamento della disuguaglianza nella distribuzione retributiva è coinciso con un declino del ruolo dei sindacati e della contrattazione collettiva. Il declino del potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori dipende molto dagli eventi politici (così, a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso, il soffio in favore della destra politica, che dagli Stati Uniti e dal Regno Unito si è diffuso in gran parte dei paesi occidentali, può aver svolto un ruolo non secondario), ma non può non essere connesso a ciò che accade nell’economia. V’è chi sostiene che, in questo campo, il declino del potere contrattuale sindacale è il risultato della polarizzazione del cambiamento tecnico a favore dei lavoratori qualificati. Questa trasformazione minerebbe la coalizione fra lavoratori qualificati e non, che costituisce la base del potere dei sindacati e il conseguente declino del grado di sindacalizzazione dei lavoratori amplificherebbe l’aumento della dispersione dei salari e delle condizioni generali dei lavoratori.

Però se è corretto, in via di principio, dire che maggiore è la quota dei lavoratori iscritti al sindacato, maggiore è la rappresentatività di questo e maggiore quindi il suo potere contrattuale teorico – anche perché minore sarà la possibilità da parte dei datori di lavoro di reperire manodopera disposta a non seguire le indicazioni dei sindacati – si può controbattere che la forza contrattuale del sindacato non è qualcosa sospeso nel vuoto, ma è calato nella realtà del mercato del lavoro in cui opera. Un mercato in cui vi sia ampio difetto di domanda rispetto all’offerta di lavoro vedrà probabilmente un sindacato piuttosto debole, anche se quasi tutti i lavoratori fossero iscritti al sindacato, poiché esistono condizioni obiettive sfavorevoli per una buona valutazione monetaria del servizio del lavoro, e poi anche perché elevata percentuale di iscritti non significa necessariamente elevata possibilità di controllo dei lavoratori da parte del sindacato quando esiste ampia inoccupazione e quindi disponibilità a non richiedere l’applicazione degli accordi collettivi, pur di trovare un posto di lavoro. È indubbio (anche perché confermato dall’esperienza delle economie occidentali dell’ultimo trentennio, e in talune anche a partire da prima ancora) che il calo dell’influenza politica ed economica dei sindacati dei lavoratori consente agli interessi dei possessori di capitale di sopraffare quelli dei lavoratori, costringendo questi a una fragile crescita dei salari e a una progressiva erosione del tenore di vita, dovuta alla riduzioni dei salari reali (salari fratto prezzi). Non solo, ma la debolezza politica e contrattuale dei sindacati ha ripercussioni rilevanti, oltre che sulla distribuzione del reddito fra lavoro e capitale, anche sulla distribuzione dei redditi fra i lavoratori, ché la predetta debolezza riduce la capacità di spingere al rialzo i salari di tutta l’economia: i lavoratori occupati nei settori e presso le imprese non in crisi distaccheranno, in termini di reddito, i lavoratori di quelli in crisi, per non parlare di tutte le altre iniquità che si determinano nella politica dei redditi quando i sindacati dei lavoratori sono deboli, o addirittura assenti.

Ad ogni modo, segnalo che pare sufficientemente evidente che i contratti nazionali o territoriali di lavoro vanno nella direzione di creare spazio per la finalità produttiva (poiché premiano le aziende più produttive) e di attuare una distribuzione dei redditi fra i lavoratori più egualitaria; nelle aziende con maggiore produttività portano alla redistribuzione dei redditi a favore del capitale rispetto al lavoro, quindi favoriscono l’accumulazione di nuovo capitale capace di sostenere bene la crescita dal lato dell’offerta; dal lato della domanda, contribuiscono al sostenimento di un buon livello della domanda di beni di consumo, poiché portano a una più equa distribuzione del reddito fra i lavoratori e ciò, in presenza della “legge psicologica del consumo” – secondo la quale la propensione marginale al consumo decresce col crescere del valore assoluto del reddito disponibile – fa sì che un euro tolto a chi ha più reddito per darlo a chi ne ha di meno faccia aumentare la propensione media al consumo della collettività. Nel complesso, i contratti collettivi nazionali paiono andare maggiormente nella direzione del bene comune, anche perché una politica salariale nazionale è più permeabile all’affermazione di principi etici che vengono a correggere il fatto che i salari siano determinati esclusivamente dal potere contrattuale delle parti. Così, ovviamente, solo in un contesto di politiche salariali nazionali può trovare spazio l’introduzione di un salario minimo legale fissato a un livello minimo vitale nonché un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo.

Tutto ciò considerato, possiamo dire che, sia nei contratti di lavoro collettivi a livello nazionale, territoriale e settoriale sia nei contratti di lavoro aziendali e individuali (e più nei primi che nei secondi) è possibile e anche probabile che i livelli salariali siano fissati a livelli dignitosi, ma è possibile anche che siano a livelli non dignitosi, per cui è necessario che la legge fissi un salario minimo inderogabile al fine di evitare lo sfruttamento iniquo di qualsiasi lavoratore, discendente dalla debolezza contrattuale dei lavoratori, definendo questo sfruttamento anche come illecito penale. Ovviamente la legge potrebbe anche assumere come propri i livelli retributivi definiti nei contratti collettivi di lavoro, dando a questi validità erga omnes.

Se non si segue quest’ultima via – che richiede, come premessa, ancor più la definizione di precise norme di legge riguardanti la rappresentanza delle parti nell’àmbito della contrattazione collettiva – occorre definire i parametri cui fare riferimento per definire autonomamente il livello del salario legale.

Il salario minimo legale dev’essere necessariamente fissato con riferimento al livello del reddito vitale e quindi collegato agli indicatori statistici di povertà assoluta, fissandosi ovviamente a livelli significativamente superiori a questi ultimi. L’attenzione dev’essere posta sulle condizioni di vita della famiglia, tenendo conto del diverso potere d’acquisto che i salari possono avere all’interno del territorio cui si riferisce; quindi salario minimo regionalizzato (salario minimo legale in termini di parità dei poteri d’acquisto), e deve tener conto (in quanto opera quale vincolo) anche della condizione di competitività delle aziende del territorio.

Daniele Ciravegna

 

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